venerdì 11 aprile 2008

Luiss e Bocconi: due università, un solo giornale

Cari frondisti,
grazie per esserVi collegati al nostro sito.
Siamo lieti di annunciarVi che "il Frondista" è riuscito nell'ardua missione di ripresentarsi a Voi. Pronto come sempre ad accogliere critiche e osservazioni che verranno accolte con entusiasmo e gratitudine da entrambe le redazioni.

Con la presente vi rimandiamo, per quanto riguarda la lettura del nuovo numero di Aprile 2008, al nuovo dominio

http://ilfrondista.wordpress.com/

Vi aspettiamo numerosi

Le redazioni web

venerdì 28 dicembre 2007

Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Tommaso Jacopo Ulissi

In un'Italia che usciva a pezzi dalla Prima Repubblica, dove, per il costume tipicamente italiano di utilizzare anatemi che condannino la società civile, e solitamente ciò che dovrebbe essere il suo specchio, il Parlamento, era difficile districarsi nel mare “nostrum” di considerazioni faziose che mal s’addicevano ad una seria, distaccata, lucida ed obbiettiva riflessione sulle cause di tale ingloriosa fine, il genio indiscusso e troppe volte scomodo di Giorgio Gaber partorì il verso che da il titolo a questo articolo-riflessione. Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono. Come una tagliente ed amaramente realistica battuta, in questa frase era ed è tutt’ora racchiuso lo stato d’animo di molti cittadini italiani, giovani e meno giovani, intenti almeno una volta al giorno a trovare buone motivazioni e convincenti giustificazioni circa la propria appartenenza alla società italiana ogniqualvolta attraversano la strada sulle strisce pedonali e sono quasi investiti, si recano allo stadio e sono quasi linciati, salgono sull’autobus e sono quasi asfissiati. Ecco allora che viene in soccorso il signor G: si è italiani, per fortuna o purtroppo. Non c’è risposta definitiva. Dipende dalle circostanze, dallo stato d’umore, da quanta pazienza e quanta buona volontà voi serbiate. E non v’è semaforo con il rosso non rispettato, parcheggio in doppia fila assicurato e merda di cane sul marciapiede calpestata che possa placare la vostra sete di italianità, la vostra voglia di veder migliorare, seppur lentamente, il Paese ed il vostro ottimismo, che vi fa vedere sempre il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto. Giusto il tempo necessario di sospirare, ingoiare il boccone amaro della vostra ultima speranza appena tradita e trovare la provvida giustificazione nello stereotipo italiano che noi tutti continuiamo ad alimentare con l’indulgenza e la passione di un amante troppo innamorato.
Se ne potrebbe fare una lista di questioni d’affrontare, ma sono talmente sulla bocca di tutti (purtroppo solo sulla bocca) che basta citarne le più eclatanti e condivise: la gerontocrazia della classe dirigente, la prodigalità nell’assistenzialismo, la quasi totale assenza del senso civico tra gli italiani. Anzi, il seguente spazio bianco riempitelo voi: credo le conosciate anche meglio di me [


].
E sarebbero fin troppo banali i confronti con quei paesi che forse più di noi si meritano il titolo di “civili”. Lo so, lo so, le critiche risultano utili solo se sanno anche essere costruttive: ma v’è veramente ancora bisogno di ripetere la cantilena che tracci gli aspetti normativi del “come dovrebbero andare le cose”? E’ dunque ancora necessario denunciare l’omertà sociale nella vita di tutti i giorni, l’irresponsabilità del cittadino medio nei confronti delle libertà altrui, il menefreghismo italiano del “tengo famiglia”? No, credo che a questo punto la situazione stia assumendo la dimensione di una farsa. Sapete benissimo dei mali dell’Italia, perché li vedete ogni giorno intorno a voi e li vivete ogni giorno sulla vostra pelle. E se non è così, forse non dovreste essere neanche autorizzati a discutere su cosa significhi sentirsi italiano. Ma se invece li conoscete bene uno ad uno, giunto a questo punto, vi ritenete italiani, per fortuna o purtroppo?
Ma non solamente alla vita quotidiana è relegata la percezione diffusa di un’Italia perennemente divisa in guelfi e ghibellini, in rossi e neri, in nord e sud. Un’Italia che non sembra meritare la singolarità di sostantivo: piuttosto le Italie delle regioni e dei dialetti, delle fedi politiche e delle tradizioni religiose. V’è anche la siderale distanza fra rappresentati e rappresentanti: come se non vi sia più possibilità di riconoscersi in chi governa tanto quanto in chi è stato designato meritorio e capace di sedere nell’aula parlamentare. La sconsolante delusione nelle istituzioni, la convinzione profondamente radicata dell’intramontabilità del perverso gioco del potere, la tentazione di considerare la partita per rinnovare non solo a parole l’Italia sempre comunque persa in partenza, sembra essere il massimo comun denominatore del cosiddetto “popolo”, che non fa parte della gigantesca kermesse messa in piedi in ogni angolo del Paese per recitare una tragica commedia che vede sempre sconfitto l’interesse del cittadino, sconfortato nel costatare come la mediocrità e la cieca ubbidienza al suo diretto superiore lascino intravedere un “sistema castale” nella gerarchia sociale italiana. Sembra come se la società civile del Paese fosse presa per stanchezza della classe dirigente, come se fosse imbrigliata dalla nomenklatura de’ noatri; come se fosse strozzato in gola l’urlo rivoluzionario (s’intendi bene, rivoluzione del singolo) e si lasciasse ammansire, disilluso e privo di forze, nella auto-conservazione di chi sembra dedito a tutto meno che alla nobile causa italiana.
Ecco dunque che la mia e vostra breve riflessione sul Paese e sul suo passato, per certi verso glorioso ed ineguagliabile, ma per altri certamente ben meno fonte di invidia e ammirazione, non può che giungere ad una conclusione che è una non-conclusione: si è italiani, per fortuna o purtroppo. E’ un attestato di cronica degenza, come una lieve influenza che però persiste da così tanto tempo che lo stato d’allarme è cessato già da un pezzo ed il malato si è oramai assuefatto a tal punto del suo stato febbricitante da non riconoscere più i sintomi di un aggravarsi incombente. In perfetto stile italiano, per l’appunto, come d’altronde è il pessimismo e il catastrofismo della firma di quest’articolo.

Per parte di madre

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Edoardo Berionni Berna

C’era una volta…
- Un re. E la sua nobiltà ! - diranno subito i miei piccoli lettori. Poi nel 1789 scoppiò la Rivoluzione francese, rotolò qualche testa coronata e si insediò al potere la Borghesia.
- No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta la Borghesia, ancor meglio la piccola-media borghesia italiana. Operosa, trafficante ed affarista. Da sempre.
Era composta da individui creativi alla ricerca del nuovo, liberi di industriarsi e di arricchirsi.
Poi tutto passò in mano ai loro figli, giovani, molto benestanti e magari laureati in prestigiose università private. Ecco però che avviene qualcosa di strano.
La favola pare interrompersi, perché il bambino si è appena assopito. La progenie, eccetto casi straordinari, non sa far altro che dormire, così distruggendo i risultati del sudato ingegno paterno e le invenzioni dello stesso genio italiano.
Sono tante le giustificazioni a questo fenomeno che ha assunto le dimensioni di una vera e propria questione socio- generazionale, ma solo una ritengo sia la più plausibile, poco trattata perché troppo elementare per gli esperti di macroeconomia. Non è il calo dell’occupazione, non è l’indebitamento e neppure la crescita dei tassi d’interessi, che — questo è da ammettere — non favorisce certo un aumento degli investimenti. La questione è sociale, perché è umana. Attiene al mondo giovanile italiano. Il nostro paese è proverbialmente reso vittima di inspiegabili sbalzi d’umore e — ancor peggio — di improvvise perdite di memoria.
Ma dimenticarsi di essere figli della borghesia e non di altre o più ambite entità sociali mi sembra eccessivo, anzi patologico.
Il guaio consiste dunque in questa crisi di identità. Descrivo e definisco ora più dettagliatamente la sindrome: ad oggi i giovani italiani si sentono nobili decaduti, discesi -seppur per una limitata ascendenza- dai rami collaterali di qualche grande famiglia aristocratica. E non esitano a presentarsi come tali, pur sapendo di mentire a se stessi.
Appena raggiunto il benessere, ecco che l’insignificante interesse per la cultura araldico-cavalleresca prende il sopravvento e sfocia trionfante nell’inaspettato quanto mai spasmodico ritrovamento di antichi vincoli parentali, magari echeggianti fastose origini giulio-claudie.
Esplodono così il gusto per il lusso e la sua febbre visionaria, il vezzo patrizio per la cultura del doppio nome, possibilmente lungo, magari cesellato alla fine da un reboante “Maria”, che lascia volutamente il dubbio — a chi di araldica onomastica non si intende — se la scelta dei genitori possa riferirsi al rassegnato rimpianto per la perdita dell’affezionato feudo di Mariano Comense (donato a fine Quattrocento da Galeazzo Maria Sforza alla sua favorita Lucia Marliani) o più semplicemente per una sincera devozione alla Madonna ed indirettamente — Dio non voglia — al Secondo Stato.
Che dire delle madri di questa nuova, rampante, inesistente, dimezzata schiatta?
Madame Bovary senza Bovarismo. Che resta? Desiderio di fanti e fantesche (meglio chiamarle così che badanti), governanti (mai dire baby-sitter), castelli, leoni di gesso, giardini, golf e bridge senza troppo preoccuparsi della tormentosa crisi dell’eroe tardo-romantico in Flaubert.
Allora perché non risanare il disavanzo di finanza pubblica con la vendita di avvincenti e proibitive patenti di nobiltà? Un passo avanti si è fatto o meglio si stava facendo in Commissione Giustizia del Senato, una rivoluzione senza spargimenti di sangue, la “rivoluzione anagrafica” nella famiglia: i figli con il doppio cognome! Un progetto — devo dire — animato tuttavia dalle migliori intenzioni.
Ma il possibile fraintendimento rimane. Perché sì, noi l’Italia dei doppi cognomi la vogliamo!
Anzi vogliamo ampliarla in nome della democrazia e della libertà low-cost.
Se non altro per complicarci la vita, allungando la firma e con essa chissà anche gli iter burocratici.
Accade così che la fannullaggine che deplorava l'abate Sieyès si trasforma in gaudente dandismo,
l’apatia giovanile in stoico e quietistico distacco senecano (in fondo Seneca si studicchia al liceo).
Tutto questo perché? Perché i giovani italiani si sentono nobili decaduti, molto decaduti,
che provano così disprezzo verso il fare, l’agire e l’arrangiarsi tanto da chiamarlo appunto “borghese”. Questo fenomeno socialmente ed economicamente stagnante non ha tuttavia un nome preciso. È sfuggente e ben mimetizzato all’interno dell’anonima opacità sociale del “ceto medio”, che come espressione pare funzionare solo quando si parla di Finanziaria ed in nome di questa si aduna in piazza a suon di corno populista il cosiddetto “il popolo del ceto medio”, quando in realtà neppure il signor Dahrendorf seppe mai definire questa “classe che non è una classe”.
Sfugge dunque addirittura alla mania classificatoria dei sociologi.
“Rivoluzione crescente delle aspettative”? Magari!
Ciò significherebbe continuare a credere in stessi, nella scienza d’Occidente, nell’intelligenza europea, nel genio italiano, così ponendosi continuamente nuovi ed ambiziosi traguardi da superare, senza mai dimenticare che il lavoro, in fondo, è un gioco gratificante.
Questo sarebbe borghese! Nel senso più pieno del termine. Negli affari come in politica (previe più serie e severe leggi sulla regolamentazione del conflitto di interessi che non abbiamo visto approvare né ieri, né oggi).
Continuare a spendere per gioco, finanziare consumi sempre più larghi che riducono i risparmi e fanno crescere il debito non sono che i sintomi di questa patologia: il complesso del nobile decaduto. Certamente sintomatico nella puntuale saggezza e lungimiranza del suo autore fu il giudizio del ministro Giuliano Amato qualche anno fa: “ Vi è un’anomalia nei ceti medi italiani, gli unici al mondo che hanno consumi simili ai ricchi. Altrove la frugalità è una virtù.”
Forse chissà, le parole magiche sono proprio quelle di parsimonia, di moderazione, di frugalità appunto. “Industry and frugality” recitava l’americano Franklin più di due secoli fa.
Provo dunque nostalgia per le forme borghesi di sobrietà, di rigore e per tutti quei caratteri che hanno sempre contribuito alla creazione del mito classico della buona borghesia.
Non ultimo il merito e la competizione.
Personalmente ritengo il termine borghesia un ottimo sinonimo per meritocrazia, che a sua volta non può prescindere dalla competizione, spesso ahimé considerata nelle nostre scuole — per colpa di una mentalità marxista o troppo cattolica — più un male che un bene. Questo perchè si insegna la rivoluzione francese, ma non si educano i ragazzi al precetto confuciano di vita del “non importa cadere, l’importante è rialzarsi.” Non si insegna più l’italica arte dell’arrangiarsi, che stiamo perdendo.
Storicamente il nobile è nobile perché è nobile. O si possiedono i “ritratti affumicati” degli stravaganti antenati Trao di cui raccontava il Verga sfiduciato di Mastro-don Gesualdo oppure non si possiedono. Punto e basta. Certo non si possono inventare. E neppure commissionare post mortem.
In letteratura — e soprattutto in quella cultura decadente di fine Ottocento — ha prevalso l’immagine del nobile decaduto attraverso le fantasiose figure letterarie di Andrea Sperelli e di Des Esseintes, simboli stessi della decadenza di un’ Epoca. Entrambi i personaggi, ancor oggi associati ad un’idea stereotipata di nobiltà, sono figure presentate al lettore come individui a rischio di estinzione, potenziali vittime del loro stesso processo evolutivo che li ha di rado costretti a cambiare qualcosa.
Un’immagine certo lontana dalla realtà. È pura finzione. Letteratura, appunto. Che però per molti, (direi troppi), rappresenta un affascinante modello comportamentale. “Vivere largamente la vita”.
E noi non possiamo permetterci questo lusso.
Non il borghese, che resiste, perché sa adattarsi e sa adattarsi perché si arrangia.
E in fondo non ha nulla da perdere, non teme di poter perdere il proprio passato, perché guarda al futuro. Né il proprio cognome o (in casi eccezionali) a uno dei due.

Classe dirigente: il tempo è maturo

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Emilio Manfredi

Nell’ambito di un dibattito tra studenti universitari di Scienze Politiche sulla realtà del nostro Paese, penso che non si possa non mettere in primo piano una questione estremamente problematica che è un po’ una chiave di volta sia all’interno dell’analisi politica, sia nella continua dinamica di interazione fra gli attori di una società in transizione: la dimensione e la qualità della classe dirigente. Senza retorica e senza voler esagerare i toni, mi sembra opportuno sottolineare che la realtà di cui stiamo parlando, l’Italia, è propriamente una società in transizione. Cosa significa questo? Forse che l’Italia stia attraversando un periodo di grave crisi economica o che l’assetto politico-istituzionale è nell’imminenza di un radicale stravolgimento che muterà il volto del nostro Paese di qui a pochi anni? Senz’altro no. L’Italia è ancora una delle maggiori potenze industriali del pianeta e la capacità adattiva dei suoi abitanti alle più diverse circostanze storiche è un’arma da non sottovalutare, anche all’interno della grande competizione nell’economia globalizzata. Il suo assetto istituzionale è giovane, ma ha delle fondamenta solide che i padri costituenti furono capaci di definire attingendo al meglio che la storia italiana avesse fino a quel momento prodotto.
Il vero problema è più profondo e non risalta in modo così chiaro quanto le debolezze di una coalizione di governo o la precarietà di una maggioranza parlamentare. L’Italia sta mutando rapidamente nelle caratteristiche della sua economia, nel suo ruolo all’interno della rete di scambi internazionale, nei suoi rapporti di potere interni, nelle opportunità dei consumatori, nella qualità del dibattito culturale. Quello che manca è un’idea chiara sulla sua identità, su ciò che l’Italia è e vuole essere. Il problema della classe dirigente italiana appartiene proprio a questa dimensione spirituale della società. Fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere il rapporto inscindibile tra corpo sociale e classe dirigente, specialmente in riferimento alle fasi cruciali della nascita dei regimi liberali europei del diciannovesimo secolo e alle dinamiche del crollo di molti di questi regimi nei primi decenni del secolo successivo. Il concetto di fondo delle diverse analisi è che la forza e la stabilità di una Nazione, qualunque sia la sua fisionomia politica e sociale, dipendono necessariamente dalla maturità della sua classe dirigente. L’Italia sta attraversando un periodo molto delicato e i mutamenti cui accennavo sopra sembra che siano destinati a svilupparsi in modo spontaneo e disordinato, lasciandosi alle spalle un ceto politico ed economico incapace di tracciare un percorso ideale in cui incanalare quelle dinamiche.
Per cogliere questa debolezza di fondo forse è necessario allargare l’orizzonte dello sguardo alle vicende della nostra Repubblica e chiedersi: cosa di ciò che l’Italia ha costruito di buono nella sua storia, e in particolare nei primi anni del secondo dopoguerra, è vivo nelle istituzioni politiche, nella cultura, nei metodi e nei contenuti dell’insegnamento nelle scuole, nel mondo dell’Università e della ricerca, nelle scelte dei grandi attori economici e soprattutto nella vita quotidiana di milioni di lavoratori? Non è per niente facile rispondere a questa domanda. Tuttavia è indubbio che esiste un grande patrimonio ideale e morale che ha dato forma all’Italia repubblicana e che facilmente si può perdere come già è successo molte volte nella storia di diversi paesi anche europei. Si comprende quindi quanto sia necessario che in una Nazione ci sia qualcuno che porti sulle proprie spalle la responsabilità di tutto questo e contemporaneamente sia capace di interpretarlo e aggiornarlo nel corso del tempo. Questo qualcuno è la classe dirigente.
Il problema di cui siamo parlando non è certo nuovo e numerosi intellettuali e politici sono spesso arrivati a imputare proprio all’assenza di una vera classe dirigente la colpa di tanti errori e sfortune della Nazione dall’Unità in poi. Come all’interno di un meccanismo complesso fatto di valvole, viti, ruote e stantuffi, che in assenza del lubrificante prima o poi si blocca, così nella società italiana continuamente riemerge la mancanza di un elemento che dia vitalità alle varie parti e armonizzi i movimenti delle sue molteplici componenti. I fenomeni cui accennavo precedentemente in riferimento all’Italia di oggi sono il materiale di cui la classe dirigente dovrebbe servirsi per ricostruire gli elementi di civiltà di cui oggi l’Italia ha tanto bisogno: il mutare della fisionomia della sua economia e delle opportunità e del comportamento dei consumatori, il basso livello del dibattito culturale, un quadro estremamente indefinito di valori e ideali condivisi, che orientino le scelte più importanti delle persone.
Ciò che stiamo facendo qui non è né filosofia politica né ingegneria sociale utopistica, ma un’analisi delle cause di problemi con cui continuamente ogni italiano si scontra nella vita quotidiana: i torbidi rapporti di potere nelle amministrazioni locali del Sud d’Italia, la mancanza d’iniziativa della piccola e media impresa sempre al Sud, le difficoltà dei giovani laureati a trovare lavoro dopo gli studi, la preparazione data ai ragazzi dei licei insufficiente per affrontare la vita reale, l’altissima evasione fiscale nell’industria del Nord, il basso livello morale dei rapporti tra politica e alta finanza, e l’elenco potrebbe proseguire. La generazione di chi oggi ha cinquant’anni, nonostante un’intensa parentesi di grande impegno politico e intellettuale, ha fallito nel trasformare realmente l’Italia. Alla luce di queste esperienze e con molte più opportunità concrete per incidere profondamente sulla società, la generazione attuale di studenti universitari italiani può essere, se vuole, la futura classe dirigente che renderà l’Italia quello che merita di essere, se solo disponesse di un briciolo della tempra caratteriale e dell’entusiasmo ideale di quell’altra generazione.

Il Nostro dovere

Editoriale del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Alessandro Capocaccia

Lo spirito che ha animato la pubblicazione dell’ampio foglio stampato che avete in mano ci ha spinto, mai paghi, a puntare ancora più in alto e a rischiare un secondo numero monotematico. Il tema stesso scaturisce da quello spirito. Sì perché lo spirito di chi vuole graffiare, mordere e lacerare non è, a dispetto delle apparenze, distruttivo. È lo spirito di chi vuole risposte. Le brama, perché le sue domande le necessitano. La domanda, anzi le domande, che ci siamo posti decidendo il nocciolo di questo numero riguardano l’Italia.
Limitarsi a compilare una lista delle mille e una disgrazie che affliggono il Paese in cui abbiamo avuto la (s)fortuna di nascere sarebbe stato troppo facile. E noi amiamo le sfide.
E questo è ancora più vero in un momento come quello in cui chi scrive segue con ansia l’ennesima crisi, sembrerebbe provvisoriamente scampata, che attanaglia le nostre istituzioni. Tutte le persone dotate di spirito critico, qualunque sia la parte politica da esse appoggiata, saranno state prese da un certo sconforto dovuto alla fragilità e all’incertezza, oltre all’umiliazione di vedere un governo implodere sulla politica estera come mai nella breve e travagliata storia della Repubblica.
Purtroppo, si dice, ognuno ha ciò che si merita, e — io parafraso — è governato da chi si merita. Ma noi ci meritiamo davvero una classe politica e dirigente di tale fattura? Noi abitanti dello stivale, dell’”Italietta”, noi che abbiamo rubato perfino l’espressione “repubblica delle banane” di honduregna memoria per definirci, davvero non possiamo puntare a nulla di meglio di quanto abbiamo? Paradossalmente, e italianamente, me la potrei cavare con un bel no, potrei rispondere che ci meritiamo di più, che siamo stufi del modo in cui lì in alto, nei palazzi del potere, sono gestiti i nostri interessi e che chi lo fa dovrebbero cambiare, dovrebbe adeguarsi.
Ma questo non sarebbe semplicemente vero. Inoltre sarebbe stata una mossa da poco, l’ideale compendio della commiserazione che più di ogni altra sciagura grava sulle nostre teste. Al nostro Paese non serve commiserazione, serve che i suoi abitanti lavorino per migliorarlo e non che ne piangano un presunto decadimento, (della politica, dei costumi, sociale in genere), per poi accettarlo supinamente ritenendolo ineluttabile. È per questo che ci meritiamo ciò che abbiamo.
Allora la banale e retorica conclusione a cui voi acuti lettori sarete giunti già da un pezzo qual è? È che siamo noi a dover cambiare, e per noi intendo tutti noi italiani, non solo l’ultima generazione.
Finché il popolo sovrano eleggerà personaggi che tollerano l’evasione fiscale o gli “espropri proletari”, nessun grande statista di saldi principi morali e alto senso dello Stato riuscirebbe a portare l’Italia dove i suoi abitanti non vogliono che essa vada.
In questo numero abbiamo cercato dunque, oltre che di identificare il “problema italiano” presentandolo nelle forme che le penne dietro gli articoli hanno ritenuto giusto dargli e connotandolo nel modo in cui hanno ritenuto giusto farlo, anche abbozzarne un’alternativa. I “pezzi” sono stati scritti indipendentemente l’uno dall’altro; leggerete però un denominatore comune a tutti loro: dietro di essi c’è la passione di chi vuol cambiare, e, vi prego, non intendetela come semplice pasión revolucionaria: il nuovo corso che riteniamo serva all’Italia, deve sì partire dal basso, ma poi deve diventare il sentiero percorso da chi sta “in alto”, in quei palazzi del potere che sono il più facile capro espiatorio (piove, governo ladro, no?) che abbiamo a disposizione.
Chi scrive, a nome di tutta la Redazione, ha cercato di dare, con il taglio fin qui esposto, la speranza che si stimoli una riflessione, anche solo personale, sul bene superiore che dovrebbe guidare la maturazione del cittadino, nella vita quotidiana come nelle sedi dove si porta avanti l’interesse della nostra cara Italia. E perdonateci se nonostante la nostra pragmaticità non siamo riusciti a scrollarci di dosso l’affetto per la Turrita Signora che personifica il nostro Paese, ma era necessario. Era nostro dovere.

La “porca rogna italiana del denigramento di noi stessi”

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Antonio Bruno

Quella “porca rogna italiana del denigramento di noi stessi”, cui fa riferimento Carlo Emilio Gadda nella sua opera “Giornale di guerra e di prigionia”, può, senz’ombra di dubbio, essere riferita all’incapacità della classe dirigente e politica italiana di riuscire a risollevare le sorti di un’Italia che è, ahimé, ancora oggi considerata una “semplice espressione geografica”, o perfino uno Stato che ha perso l’abitudine a governarsi; uno Stato dimentico della sua identità nazionale.
Il periodo che prende il nome di Prima Repubblica e che sembra essere stato l’età dell’oro del nostro Stato unitario, nonché la stagione di benessere e sviluppo economico, è coinciso, a detta di alcuni, con il trionfo di una strategia minimalista, con la retorica dell’Italietta “schiava” delle grandi potenze Occidentali e legata, dal vincolo del Partito Comunista Italiano, al grande nemico strategico dell’Occidente: l’Unione Sovietica. Eravamo un semiprotettorato altrui, inglobato nella strategia occidentale della Guerra fredda. In effetti, “la nostra politica militare era quella della Nato, la nostra politica economica era quella della Comunità Europea” (cfr. Francesco Cossiga) e non poteva essere altrimenti, dal momento che la nostra Prima Repubblica era sorta dalle ceneri delle ambizioni italiane di grandezza nel secondo conflitto mondiale.
A partire dall’agosto del 1943, il re e il generale Pietro Badoglio si trovarono di fronte a un bivio: abbandonare la guerra e difendere il territorio nazionale da qualsiasi pressione esterna o allearsi con gli anglo-americani e prendere parte ai successivi eventi bellici. La scelta ricadde sulla seconda alternativa e lo sbandamento fu totale. Come ha commentato amaramente Sergio Romano “[il re e Badoglio] dimostrarono che l’Italia non poteva né badare da sola alla propria sicurezza, né dare un contributo determinante alla difesa del proprio territorio”, sottolineando quanto quegli eventi furono importanti per il presente e il futuro della nazione. Quella decisione infatti tracciò il percorso che la politica estera italiana avrebbe seguito negli anni a venire, determinandone le scelte più importanti. Si fece strada, quindi, un sentimento europeista, al quale, con il beneplacito degli Stati Uniti, aderirono tutte le nazioni del Vecchio Continente, terrorizzate dalle nefandezze della guerra e dalla loro incapacità di farvi fronte. L’europeismo dell’Italia fu, invece, una scelta obbligata, considerando la necessità di Alcide De Gasperi di rivedere completamente gli obiettivi della nostra politica estera, a causa della freddezza nutrita nei confronti dell’Italia da parte di americani e inglesi, ben lontani dal precedente entusiastico avvicinamento. L’unica arma per evitare l’isolamento divenne proprio innalzare il vessillo dell’europeismo, attraverso il quale l’Italia rientrò nella sfera alleata, registrando anche il consenso, rispetto a tale scelta, di larga parte del Paese.
Questo complesso di eventi rappresentarono, per la nostra nazione, una sorta di trauma mai più riassorbito, che ha fatto progredire quel processo di “denigramento di noi stessi” fino alla permanente prostrazione del sentimento nazionale degli italiani. Renzo De Felice, nel suo dibattuto libretto Il Rosso e il Nero, sostiene che, a partire dall’8 settembre 1943, si sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani, una catastrofe ideale, la perdita dell’idea di nazione che avrebbe “minato per sempre la memoria collettiva nazionale”; gli italiani pertanto, privati nel profondo della fede nella patria, sembravano una “massa informe dalla corta prospettiva morale”, pronti per essere ulteriormente ingannati dai partiti antifascisti. Insomma, gli italiani sarebbero caduti nelle mani della partitocrazia che avrebbe costruito la retorica antifascista senza aver posto rimedio alla debolezza. A questa conclusione sembra pervenire anche Ernesto Galli Della Loggia la cui analisi sulla “morte della patria” riprende e radicalizza ulteriormente le posizioni di De Felice, ravvisando l’insufficienza identitaria italiana in una dimensione quasi antropologica.
Si potrebbe obiettare, a quanto detto, che l’8 settembre sia stata la diretta conseguenza di un’erronea scelta, seppur obbligata, fatta ben tre anni prima: il 10 giugno 1940, quando l’Italia, consapevole di aver sacrificato le forze migliori del Paese nelle guerre coloniali, si è lasciata coinvolgere nella guerra nazista. Tuttavia è innegabile che, generazione dopo generazione, gli italiani siano stati allevati in una mescolanza di retoriche antinazionali di ogni tipo. Quelle due grandi forze che gestirono la Repubblica dei partiti, l’una sempre al governo, l’altra sempre all’opposizione, non sono state in grado di gettare salde fondamenta per la costruzione di un sistema politico, amministrativo ed economico, che riuscisse nel tempo a proiettare l’Italia in una dimensione dominante, avulsa dal becero “servilismo”, che l’ha dilaniata per secoli. Si è così venuta a creare una società apolitica, asociale, antistatalista; una società contagiata dal virus della diffidenza, dell’antipatia, dall’odio verso lo Stato, verso la sua burocrazia, verso le sue tasse ma anche verso le sue regole. Una società tesa al multiculturalismo, ma vittima di un paradosso: se da un lato è pronta ad accogliere nel suo seno migliaia di “senza patria” che difficilmente rinunciano alle proprie origini, dall’altro si ritrova ad aver formato una generazione di italiani che giorno dopo giorno subiscono passivamente gli inesorabili mutamenti della realtà globale, dimenticandosi della propria storia, delle proprie radici, della propria identità...
Pertanto, per quanto possa sembrare arduo il compito di ridare all’Italia maggiore consapevolezza del proprio orgoglio nazionale, risulta, oggi più che mai, un imperativo, una necessità vitale adoperarsi affinché venga colmato il vuoto culturale, identitario, generato dall’inadempienza politica di alcuni uomini, deficienti dell’arte di governare. Come ha spiegato il grande filosofo contemporaneo Karl R. Popper, la domanda giusta da porsi non è mai “chi deve governare?”, bensì “come possiamo organizzare le istituzioni politiche per impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. La risposta a tale domanda sarebbe da ravvisare nei principi dello Stato democratico, basato sulla divisione dei poteri; sullo Stato di diritto di tipo democratico-parlamentare, la cui essenza risiede nel favorire l’alternanza dei partiti destinati a governare. Purtroppo la recente storia dell’Italia della Prima Repubblica è stata segnata dalla mancata attuazione di questa alternanza e da un perpetuo susseguirsi di numerosi governi, espressione di un’unica corrente politica e di una corrotta mentalità che credo abbia soffocato quella vertù mossa dall’antiquo valore/ne l’italici cor, cui facevano appello Petrarca e Machiavelli.

Quando la politica si fa arte

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Alessandro Maria Baroni

È uno splendido sabato pomeriggio di metà inverno. Uno di quei pomeriggi che ti invoglia ad uscire di casa, magari per un bella passeggiata in centro, a prendere qualcosa di caldo al bar, o a fare due compere. Ma forse è meglio di no. Meglio non rischiare. Se generalmente indossi un eskimo, porti jeans un po’ scoloriti, hai i capelli non proprio rasati a zero o ti piace la barba leggermente incolta, niente centro, niente Bar Italia, noto covo di missini e neofascisti, niente compere. Meglio rifugiarsi nel solito posto, il solito circolo Arci, che non garantirà un divertimento da sballo, ma almeno di tornare a casa la sera sano e salvo. Meglio poi portare sempre con sé un documento d’identità valido. Non si sa mai. Di questi tempi basta incontrare il poliziotto sbagliato che ti scambia per un brigatista e finisci dritto dritto in Questura. L’accusa? Essere un po’ troppo fricchettone.
Purtroppo non bisogna andare troppo indietro nel tempo perché un nostro coetaneo facesse un ragionamento di questo tipo nel decidere come passare un qualunque sabato pomeriggio. Fino all’incirca a vent’anni fa praticamente tutte le città italiane, se non le erano in toto, erano divise in zone rosse e zone nere. Dove chi era, o solamente sembrava, rispettivamente di destra o di sinistra era meglio che si tenesse alla larga dalla zona nemica. I tuoi amici dovevano essere tutti rossi o tutti neri: guai ad andare d’accordo un po’ con tutti. A seconda che tu fossi di una parte o dell’altra dovevi fare certe cose, vestirti in un certo modo, usare determinati oggetti. Giravi in 2 cavalli? Eri di sinistra. La golf? Nota macchina di destra.
L’Italia era divisa all’interno da una sottile cortina di ferro. Troppi gli strascichi lasciati dal vecchio regime fascista, fortissimo il consenso verso i partiti di sinistra, tanti i nostalgici del “si stava meglio quando si stava peggio”. Il Paese era terribilmente ideologizzato e i gruppi più estremisti trovavano un grande terreno fertile per incunearsi nel tessuto sociale e tentare di destabilizzare il sistema della fragile e giovane Repubblica a colpi di attentati, bombe e idioti processi proletari.
Ma se nel 2007, dopo quasi 61 anni, viviamo ancora in una Repubblica democratica, lo dobbiamo al fatto che allora la parola politica si scriveva con la “P” maiuscola. Allora sì che c’erano grandi Partiti di massa, realmente democratici, che nonostante le opposte visioni su determinati temi riuscirono a compiere un vero e proprio capolavoro. Il capolavoro di mantenere unito un tessuto sociale che era sull’orlo della disgregazione e dello sfaldamento. Il capolavoro di porre in essere acerrimi scontri politici, salvo poi sedersi tutti attorno ad un tavolo con grande saggezza per raggiungere accordi con mediazioni alte sui temi più delicati e importanti per il Paese. È per questo che oggi dobbiamo essere grati ai due più grandi Partiti che hanno fatto la storia del nostro Paese: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. La prima riuscì nella missione quasi impossibile di inglobare, dare rappresentanza e far conoscere le regole democratiche alle grandi masse contadine cattoliche che fino ad allora guardavano con grande diffidenza al Palazzo e non volevano sapere nulla della politica. Il secondo ebbe l’enorme merito di accettare fin da subito le regole democratiche e la forza del confronto politico, preferendoli all’arroccamento su posizioni puramente ideologiche, dando così rappresentanza nelle istituzioni alle istanze sociali dei più deboli e di tutti gli emarginati. Ma è soprattutto grazie a questi due grandi Partiti, che assieme rappresentavano l’ottanta per cento della popolazione , e ai grandi sindacati dei lavoratori che l’Italia ha superato gli anni bui del terrorismo.
Questa, e solo questa, è degna di essere chiamata Politica. Essa soltanto corrisponde alla definizione classica fornita da tutti i dizionari e da tutte le enciclopedie esistenti: l’arte di governare la società. Non un semplice attività, quindi, ma una vera e propria arte. Un’arte che, in quanto tale, non ha nulla di improvvisato ed estemporaneo, ma poggia su solide basi di studio ed esperienza. Quello studio che permetteva a ragazzi di campagna, a giovani operai con la licenza elementare di formarsi attraverso le scuole di Partito e divenire classe dirigente. Questo è il sale di una democrazia.
Detto questo, non vorrei sembrare un nostalgico della prima Repubblica, voglio semplicemente mettere in luce i suoi grandi meriti e i suoi lati più positivi. Senza dimenticare che se oggi ci troviamo in questa situazione non propriamente rosea è soprattutto a causa dell’incapacità dei suddetti e degli altri Partiti di autoriformarsi tempestivamente in modo efficace.
Col crollo del Muro di Berlino e delle ideologie la società italiana ha fatto un notevole passo in avanti. È cambiata molto rapidamente. I vecchi schemi sono caduti e se ne sono imposti di nuovi. Non ugualmente dinamica è riuscita ad essere la politica, anzi. Se da una parte c’era chi continuava a negare l’evidenza e si ostinava a proporre modelli per nulla innovativi, in assenza di politici veri e partiti degni di questo nome, ha iniziato ad affermarsi quella che nei fatti non può che essere definita come antipolitica. Il senso dello Stato è venuto meno, qualsivoglia prassi istituzionale calpestata, la migliore tradizione italiana rinnegata, le radici della Repubblica stravolte. Ciò che conta è il leader, la sua volontà e le esigenze particolari di chi lo sostiene. Di interesse generale se ne occupi pure qualcun altro. Basta qualche slogan populistico, due foto ritoccate e un paio di strette di mano per riuscire ad ottenere il consenso necessario. Ma alla gente non piace essere ingannata. Se una voglia di cambiamento viene tradita il rischio è grande. E si chiama apatia, indifferenza, apolitica.
L’Italia è stata e rimane uno dei Paesi a più alta partecipazione elettorale. Basta questo a dimostrare che non siamo ancora arrivati a questo punto. Certo, ci siamo arrivati vicini. E il rischio è sempre dietro l’angolo. La gente, in realtà, ha voglia di politica e soprattutto ne hanno voglia i giovani; ma di politica vera: fatta di politici e non di politicanti improvvisatori, che sappia indicare una via da percorrere e non sbandi in continuazione, che abbia istituzioni che funzionino e non proceda per congiure di palazzo. Una domanda da soddisfare c’è. È l’offerta che manca. E in sua assenza ci si rifugia in altre forme: si fa volontariato; si lavora in associazioni; si promuovono movimenti; ma difficilmente si decide di entrare in uno dei tanti (troppi) partiti che altro non sono che degli “ex” o dei “post”. E nelle situazioni di maggior disagio gli estremisti tornano a raccogliere consensi formando gruppi neofascisti che vanno ad aggredire altri ragazzi o nuclei neobrigatisti pronti a tornare a prendere di mira i cosiddetti nemici del popolo.
Ormai serve una netta inversione di rotta. La transizione verso la normalità non può essere eterna e fortunatamente si iniziano a vedere i primi segnali di un approdo. La costituzione del Partito Democratico, a tal proposito, può essere un ottima risposta per quanto riguarda il centrosinistra. Lo stesso può essere la nascita del Partito unitario di centrodestra
Ma perché la politica torni ad avere dignità, torni davvero ad essere considerata un’arte, è necessario il nostro impegno. Noi, un eskimo, sappiamo a mala pena cosa sia. Siamo la prima generazione post-ideologica, siamo liberi di fare ciò che vogliamo senza ricevere un’etichetta ben precisa. È per questo che abbiamo un’occasione unica, e non possiamo lasciarcela sfuggire. Per questo serve l’impegno di tutti quei giovani di ogni schieramento politico che portano in serbo sogni e speranze, che amano il loro Paese, le sue istituzioni e la sua storia, che non si rassegnano allo stato delle cose e lo vorrebbero diverso, che vorrebbero lasciare ai loro figli un Paese migliore. C’è bisogno di tanti giovani come questi. Che pensano che questa non sia solo un’utopia, ma qualcosa di realmente realizzabile. Che decidano di impegnarsi non per qualche miraggio di gloria personale o di autorealizzazione, ma solo ed esclusivamente per passione.

L'Italia tra crisi e crescita

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Giulio Agamennone

Indro Montanelli disse: “il miglior governante italiano è straniero”. Questa efficace battuta esprime tutto il suo disappunto, tutta la sua disillusione verso una classe dirigente politica che ha del tutto mancato l’obiettivo di migliorare il nostro Belpaese. Una posizione del genere appare quantomeno pessimista, senz’altro figlia di un’esperienza di vita che aveva portato Montanelli al profondo scoramento che lo accompagnò fino alla morte.
Tuttavia, mentre mi accingo a scrivere questo articolo, l’Italia si è appena trovata di fronte all’ennesima crisi di governo, da cui è uscita, nell’opinione di tutti, solo per rientrarvi in men che non si dica. La significativa immagine con cui l’Italia si è presentata dopo le elezioni dello scorso aprile, cioè di un paese spaccato a metà, ci accompagna ancora oggi. Il Senato non appare infatti in grado di esprimere una duratura maggioranza, e la pseudo-maggioranza di centrosinistra uscita dalle elezioni si troverà ben presto a dover fare i conti con nuovi forfait dagli scranni della sinistra “antagonista”.
Ma qual è la radice di questa condizione? L’impressione che mi sono fatto è che sia conseguenza di una campagna elettorale ambigua e “nuova” (per il ruolo che hanno avuto i media nell’influenzare l’opinione pubblica), della costituzione di due coalizioni estremamente riottose (per descrivere le quali può tornare alla ribalta l’aforisma “la politica crea strani compagni di letto”), e, last but not least, di una legge elettorale profondamente inadeguata, studiata ad hoc per impedire, al vincitore, la governabilità del paese.

Partendo dalla campagna elettorale essa è stata segnata, oltreché dal presenzialismo di uno dei due leader, dalla rigida contrapposizione delle forze in campo, allineate sulla demonizzazione dell’avversario, sull’invito all’elettore a votare loro per non votare gli altri, dunque senza la proposta di valide soluzioni per risolvere i problemi degli italiani. Altra caratteristica è stata la “mediatizzazione” della politica, con la proliferazione di commentatori, che dai vari quotidiani e periodici, divisi anch’essi su blocchi contrapposti, lanciavano bollenti critiche alla fazione da essi osteggiata. Ponendo l’accento sulla struttura delle due coalizioni, il centrosinistra appare stretto intorno all’avversione per Berlusconi, collante che può aver avuto una sua efficacia fintantoché si è rimasti all’opposizione, ma una volta ottenuta la maggioranza tale collante si è rivelato sensibilmente più blando. Prodi ha dovuto più volte scendere a patti con le forze marginali (Rifondazione Comunista, i Comunisti Italiani di Diliberto e l’Udeur di Mastella) che tengono in vita la coalizione, piuttosto che perseguire il proprio programma di governo. E’ inoltre innegabile il dissidio tra i cosiddetti “riformisti” e i “radicali”. Riguardo all’opposto schieramento, molti politologi sono concordi nel vedere in Berlusconi l’unico uomo in grado di “tenere insieme la baracca”, con Gianfranco Fini successore designato, e Pierferdinando Casini alla finestra, pronto a sfruttare eventuali situazioni d’incertezza (non considerando anacronistiche svolte centriste). Appare d’altro canto evidente la contraddizione interna all’attuale centrodestra, con i cattolici dell’Udc al fianco di partiti ormai privi di identità quali Forza Italia e Alleanza Nazionale, che non si richiamano né all’ideologia della Destra sociale, né tantomeno a quella della Destra liberale, il che è ampiamente dimostrato dalle mancate liberalizzazioni compiute dal Governo Berlusconi; così come dall’immagine fornita dai “colonnelli” di AN, quali Gianni Alemanno & co., che all’indomani del primo decreto— Bersani scesero in piazza per difendere gli interessi particolaristici dei tassisti.

La legge elettorale, che il suo stesso propositore, il leghista Calderoli, ha definito, senza troppi peli sulla lingua, una “porcata”, ha fatto sì che i due rami del Parlamento potessero esprimere maggioranze differenti, a danno della governabilità del nostro sistema a bicameralismo perfetto. Tale legge ha poi privato l’elettore della possibilità di scegliere il proprio rappresentante, lasciando ai partiti l’onere di selezionare i candidati. E questo ha contribuito senz’altro a diffondere nell’opinione pubblica la sfiducia verso un mondo politico che è visto senza ricambio e autoreferenziale, basato sulla cooptazione piuttosto che su di una selezione meritocratica, e che la classe dirigente politica sia orientata più verso il “durare”, cioè il rimanere in carica, piuttosto che verso il “decidere”.

Molti sottovalutano la gravità della situazione. Il centrosinistra ha dato il via obiettivamente a una stagione di riforme da tempo attesa, a scapito della perdita del consenso dei settori colpiti dalle liberalizzazioni, e a scapito delle dure contestazioni seguite a una legge Finanziaria senza dubbio esosa, ma inevitabile per ridurre il deficit, pagare gli interessi sul debito pubblico e rimettere in moto i cantieri delle Grandi Opere. E la caduta del Governo Prodi potrebbe porre fine per decenni ad ogni tentativo riformista. Riforme che definire necessarie è riduttivo. Urge una riforma del mercato del lavoro che garantisca alle imprese di adattare la propria produzione ai momenti di crisi, così da accelerare la ripresa, e che offra al contempo ai lavoratori la possibilità di poter fare piani sulla propria vita, impossibili se costretti nel ruolo di atipici (co.co.co. e co.co.pro.); occorre che venga riconsiderata la tassazione sulle rendite, così da renderla pari se non superiore a quella sul lavoro, incentivando così ad investire in attività con finalità sociali, che creino lavoro, contribuendo a diffondere il reddito nella società, piuttosto che in attività che abbiano come unico fine il profitto dello speculatore; è necessario portare avanti la lotta all’evasione e all’elusione; va condotta a termine una riforma che renda efficiente la pubblica amministrazione, consentendo così anche di ridurre la spesa pubblica; bisogna poi proseguire le liberalizzazioni, per eliminare tutti quegli organi, come gli ordini professionali, che impediscono la nascita di una libera concorrenza, la cui assenza va a svantaggio dei consumatori; è infine necessario mettere da parte risorse da investire nella ricerca, cosicché si riesca, da un lato, ad evitare che l’Italia debba continuamente importare innovazioni tecnologiche dagli altri paesi, dall’altro a porre fine alla fuga dei cervelli, che rappresenta una considerevole perdita per l’Italia.
Tali obiettivi sono realizzabili. O meglio, lo sarebbero con una classe politica responsabile, onesta e trasparente, che sappia riunirsi attorno a temi fondamentali e perseguire davvero il bene dei cittadini, senza essere influenzata da pressioni di poteri e contropoteri più o meno oscuri, senza perdersi in dannose contrapposizioni ideologiche, e senza accettare i ricatti di partitucoli bramosi di potere. Si tratta di uno scenario realistico? Non resta che sperare che un giorno tutto ciò possa realizzarsi, e che la politica diventi più limpida e davvero democratica. Altrimenti ci resta sempre l’ipotesi profilata da Oliviero Toscani, secondo cui “l’Italia dovrebbe essere abolita come Stato indipendente e diventare una colonia di un Paese civile”.

La nostra presunzione

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Mattia Bacciardi

Mi è capitato di rileggere le belle pagine del Manifesto di Ventotene e non ho saputo resistere all’enfasi volontaristica e ancor di più alla struggente malinconia. Depongo da subito la toga neutrale che spetta a chi scrive. Vi avverto: non sarò obbiettivo.
Le parole gravi dei tre intellettuali che lamentavano l’Europa distrutta dal rinato impulso suicida, la lucida analisi della follia totalitaria, il coraggio di prendersi sulle spalle la storia del Vecchio Continente: sono le armi sottili di uomini comuni dediti all’uso attento della propria ragione. Le sole armi rimaste all’ “homo aeuropeus” da opporre alla cieca hubris delle legioni naziste. Armi leggere quelle della lucida critica contro gli squilli di tromba della “Rivoluzione Mondiale”.
Le armi di questi tre italiani, sconfitti ma non vinti, sono generose e quasi compassate nel loro invito al cambiamento. Somigliano più al fioretto aristocratico che alla prosaica artiglieria del pensiero unico. Non mirano al cuore, facile preda dei martellanti tamburi della “necessità storica”. Evitano saggiamente gli echi della demagogia populistica.
Mentre tutto il mondo impazzito rotola verso la pira sacrificale allestita in un decennio di corsa al riarmo, tre presuntuosi italiani osano ancora scrivere frasi da capire, non da urlare. Sillogismi, non slogan.
Capita spesso in Italia. Anche oggi che la macchina mondiale affretta il passo dello sviluppo tecnologico, noi lamentiamo la nausea della velocità e chiediamo di scendere per prendere un autobus. Sempre il prossimo.
E’ un po’ il paradigma dell’Italia: quello di voler essere a tutti i costi fuori dal coro. Ma quella volta quei tre italiani videro più lontano degli altri. Dove altri si rassegnavano alla rovina di un continente perennemente abbattuto essi videro un’opportunità. Resistettero al pessimismo vano dei fatalisti, dei profeti del declino europeo riaffermando quello spirito visionario che contagiò i De Gasperi, gli Adenauer e gli Schumann.
Nel momento supremo dello scontro totale, quando tutti si arrendevano alla logica delle baionette incrociate, essi avevano ragione a voler alzare lo sguardo. Avevamo ragione.
Come italiani e come europei il nostro manifesto di Ventotene rappresentò l’idea più originale e più giusta sulla strada da percorrere. Fummo noi italiani, con questo appello disperato e visionario ad indicare la via alle altre nazioni europee che brancolavano nel buio della guerra “unica igiene del mondo”.
Fu un sasso nello stagno, che irradiò di sé l’acqua circostante, profondendo cerchi sempre più ampi: la Ceca, poi la CEE, quindi il Trattato di Maastricht e infine l’Unione Europea.
Oggi il tentativo di darci una Costituzione frettolosamente emanata col cipiglio di una circolare ministeriale sembra aver fermato la forza propulsiva di quel sasso.
Ma troppe generazioni di italiani e di europei hanno creduto e si sono spese per dare alla luce il sogno della Federazione per credere che tutto si dissolva con un paio di “No”.
Ci vuole ben altro che un asfittico dibattito sulle radici culturali o freddi calcoli di geopolitica improntati all’analisi costi-benefici per fermare questa idea.
Un’idea di libertà. Quella di viaggiare, attraverso le frontiere mai più sbarrate da muri eretti in una notte in cui spira più forte il vento della xenofobia. Di trovare lavoro, in un mercato unico che non conosca più autarchie e protezionismi. Di conoscere, studenti Erasmus di ogni latitudine che mescolano i colori della loro diversità in un turbinio di lingue e di costumi.
Ogni generazione politica riceve dalla precedente una grande sfida da superare. Un compito o un obbiettivo che dia senso alle tante parole profuse ed agli sforzi di compromesso compiuti. Alla generazione di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni toccò in sorte la lotta contro il totalitarismo che minacciava la conquista dell’Europa. Essi onorarono il loro impegno e gettarono le fondamenta della casa comune europea. L’ultima generazione ha eretto quella casa nel ricordo del sangue versato dai loro padri. Essi ci hanno condotto fin sulla soglia, interludio alla vera federazione politica e lì si sono fermati.
Il nostro compito è di ritrovare lo slancio della fiducia di quei tre presuntuosi italiani che preconizzavano “una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali” quando sul nostro continente incrociavamo le armi gli uni contro gli altri.
La nostra meta è di realizzare una Federazione di popoli capace di valorizzare le proprie diversità di storie e tradizioni ma di agire come un solo protagonista sulla scena mondiale. Carico dell’esperienza di una civiltà dotata del grande merito di saper mettere in discussione sé stessa.

Iran e Israele: "La tempesta e l'albero"

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Antonio Bruno

È sottilissimo il filo che lega in una spaventosa spirale di guerra e morte i Paesi del Medio Oriente; un filo non solo di natura politica, economica e militare, bensì, soprattutto, di natura religiosa, spirituale, ideologica.
La seconda guerra del Libano (12 luglio-14 agosto 2006) ha rappresentato un capitolo fondamentale dell’ormai intricato conflitto arabo-israeliano, cominciato più di quaranta anni orsono. Ma non solo. Essa è stata, principalmente, uno dei campi di battaglia e di scontro della grande guerra fra la civiltà islamica e quella occidentale, fra l’“Hizb-Allah”(Partito di Dio) e l’“Hizb-Shaytan”(Partito di Satana).
L’aspetto fondante della religione islamica, in particolare a partire dalla rivoluzione in Iran di Khomeini (1978-79), è l’odio maturato negli anni nei confronti dei non musulmani e, soprattutto, nei confronti degli ebrei.
I tradizionali concetti anti-ebraici, sempre presenti nella storia e nella civiltà islamica, sono riaffiorati con veemenza con il rafforzarsi del movimento islamico e dei vari movimenti di liberazione (organizzazioni terroristiche). Il sionismo viene visto come l’apice “di un attacco politico e culturale” del Grande Satana (l’Occidente) al mondo islamico.
Alla base di ciò è l’interpretazione della “nascita dello Stato ebraico al centro del mondo islamico come il più recente di una lunga serie di complotti ebraici contro i musulmani”: gli USA si sono adoperati, con l’ausilio delle Nazioni Unite successivamente al secondo conflitto mondiale, affinché gli ebrei, vittime di un efferato antisemitismo, avessero finalmente una loro patria, un loro territorio, ponendo fine alla secolare diaspora.
E’ appunto questa politica intrapresa dai Paesi occidentali ad essere avvertita come un modo per delegittimare la sacra (ed immutabile) tradizione religiosa islamica; come la radice della crisi morale, spirituale, nonché politica di cui soffrono i musulmani. Una crisi scaturita dalla consapevolezza che il mondo è divenuto “l’inferno dei credenti e il paradiso degli infedeli”.
Tuttavia le reiterate sconfitte degli eserciti arabi nelle guerre contro Israele e l’effettivo successo delle organizzazioni terroristiche quali Olp, Hamas, Jihad islamica e Hizbullah del Libano, hanno sancito che la guerriglia è l’arma migliore per strappare territori ad Israele e per combattere gli ebrei. Costoro, dai musulmani, non sono visti come un popolo ma come un collage di comunità religiose disseminate fra i popoli, che Allah ha condannato alla sottomissione, in quanto hanno rifiutato il messaggio profetico di Maometto.
Queste sono, in nuce, le convinzioni che stanno alla base della politica antisionista adottata, oggi come in passato, dai leader iraniani e dalle organizzazioni terroristiche come Hizbullah e Hamas.
Il conflitto attuale fra Iran e Israele è palesemente di natura ideologica e non territoriale.
L’Iran, pertanto, forte baluardo islamico, è come se si sentisse investito di una profonda missione religiosa e politica, che viene avvertita come un forte imperativo, come l’obbligo di far trionfare ovunque il Partito di Dio, annientando e distruggendo Israele (potremmo dire citando e parafrasando Catone “Israel delendus est”). Un “grande premio” questo, da ottenere attraverso l’azione di Hizbullah, movimento satellite dell’Iran in terra libanese, già supportato da Teheran e dai guardiani della rivoluzione (i pasdaran), durante la prima guerra del Libano (1982); attraverso il rafforzamento della propria posizione nelle regioni con un’ampia popolazione sciita, come Iraq e Libano, e il supporto dei vari movimenti, con lo scopo di favorire e consolidare la base politica e quindi una maggiore e capillare diffusione dell’ideologia rivoluzionaria iraniana; e magari anche attraverso il ricorso alla tecnologia nucleare. L’Iran possiede già una tecnologia missilistica a lunga gittata. Gli servono solo le testate. Ma a quale scopo?
Probabilmente per realizzare l’obiettivo geopolitico di affermarsi come potenza massima in Medio Oriente, dotata del nucleare e di straordinarie risorse energetiche, e finalmente in grado di combattere e vincere la decisiva battaglia contro il Grande Satana, sotto molti fronti.
Tuttavia non si possono non prendere in considerazione le numerose dichiarazioni antisioniste e antisemite del presidente iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad secondo cui Israele è un "albero marcio e morente" che sarà distrutto da una "tempesta".
Parole durissime, che diventano ogni giorno benzina con cui ogni manifestante pacifista europeo si considera legittimato a bruciare in piazza la bandiera d’Israele insieme a quella degli Stati Uniti.
Non solo, ma a 60 anni dalla liberazione di Auschwitz, in tanti ragazzi italiani ed europei, c’è voglia di non credere più “alla leggenda” dei sei milioni di morti nelle camere a gas e nelle deportazioni.
D’altronde, come scrive il Jerusalem Post, “é sbagliato pensare che in Medio Oriente possa stabilirsi un equilibrio della deterrenza paragonabile a quello della guerra fredda fra USA e URSS. Qui la situazione è molto diversa. Un ordigno nucleare nelle mani di fanatici islamici, convinti che l'esistenza dello stato ebraico sia una vera e propria bestemmia contro la loro religione, pone una seria minaccia esistenziale per Israele".
Se lo scontro frontale resta per ora fortunatamente confinato nell'ambito delle minacce verbali, sul terreno del terrorismo l'Iran non sta con le mani in mano. Chi pensava che, dopo l'11 settembre, anche Teheran avrebbe dovuto abbandonare o perlomeno ridimensionare la sua dimostrata contiguità con le reti del terrorismo mediorientale, ha dovuto ricredersi. La repubblica degli ayatollah ha anzi aumentato appoggi e aiuti verso tutti i principali gruppi fondamentalisti, gli stessi talebani e i membri di al-Qaida, in fuga dalla disfatta afghana. "Sono minacce estremamente serie – come ha scritto Gerald Steinberg (Jerusalem Post) - e tutti i segnali indicano che ora come ora ci troviamo di fronte a uno sforzo in prima persona dell'Iran volto a provocare una vera e propria conflagrazione regionale".

Partito Democratico: perchè no

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Giulio Agamennone

La modernizzazione della sinistra, la cui esigenza è avvertita da più parti, ha condotto al dibattito sul Partito Democratico, nome con cui dovrebbe chiamarsi questo nuovo soggetto politico, volto a realizzare una chimera che dal 1996 (anno in cui nacque l’Ulivo) attanaglia i sogni della gente di sinistra. Alla luce anche degli eventi verificatisi lo scorso maggio, quando la squadra di governo venne formata seguendo fedelmente il manuale Cencelli, appare sempre più evidente come il sistema partitocratico stia rovinando la sinistra italiana. Il dibattito sul Partito Democratico nasce anche dalla presa di coscienza di questa realtà, con l’obiettivo di generare un’entità coesa, che possa dare il via ad un’inversione di tendenza, contrapponendosi al progressivo frammentarsi delle forze politiche e ponendo fine a una logica clientelare che va avanti da troppo tempo.
Tale organismo dovrebbe comprendere i Democratici di Sinistra e la Margherita, che già hanno dato un forte segnale costituendo un unico gruppo parlamentare sia alla Camera che al Senato.
Con queste premesse, il progetto appare ineccepibile. Sento però di dover esprimere delle perplessità in merito a questa iniziativa, innanzitutto sul percorso che si sta seguendo, quindi sulla futura collocazione internazionale del partito, cui si collega inevitabilmente la questione delle radici ideologiche.
Per quanto riguarda il primo punto, cioè il processo formale da cui scaturirà il partito, è senz’altro apprezzabile la scelta di promuovere seminari (come quello svoltosi nel mese di ottobre ad Orvieto) allo scopo di aprire il dialogo e il confronto con scettici, confusi, contrari. Meno apprezzabile è il fatto che in realtà ad Orvieto nessuno al di fuori dei membri dei due partiti abbia avuto diritto di parola, nonostante fossero presenti molte associazioni e anche qualche giovane. Fa riflettere inoltre che all’interno dei Ds vi sia una frangia minoritaria, il cosiddetto “Correntone” (la componente più a sinistra del partito), che non condivide affatto le scelte del segretario Piero Fassino in merito alla fusione con la Margherita. Questo gruppo dissidente, che comprende dirigenti del partito del calibro di Fabio Mussi e Gavino Angius, ha deciso di disertare l’incontro umbro. Una posizione biasimevole, perché poco costruttiva: il Correntone non è disposto in alcun modo a venire incontro alle proposte presentategli dal resto del partito. D’altro canto fa capire che non sarà semplice condurre in porto il progetto del partito unico.
Inoltre, di solito, i partiti nascono per rispondere ad una frattura sociale, o ad una necessità della società civile. E in questo caso nessuno di questi due requisiti pare soddisfatto. Eppure ve ne sarebbero di fratture sociali nel nostro Paese. Questa nuova forza politica sembra invece prendere le mosse esclusivamente da un patto, un accordo tra partiti, i maggiori della coalizione di centro-sinistra. Una semplice addizione dei due gruppi, cui si accompagna però un potenziale politico enorme. Un’operazione che deluderà, a mio avviso, quanti si aspettino un cambiamento.
Detto della “forma”, resta da discorrere della “sostanza”.
L’ideologia che viene presentata in questa proposta è quella “riformista”. Ma, come sostiene lo storico Pietro Scoppola, non esiste in Italia una cultura riformista egemone. Esiste invece una pluralità di riformismi, uno di stampo socialdemocratico, un altro di stampo cattolico. Mi pare quantomeno sciocco il voler sottovalutare questa compresenza di due identità per lo più divergenti, una propria dei Ds, l’altra della Margherita. Identità che caratterizzano non solo i dirigenti, ma anche gli attivisti e, cosa più importante, gli elettori. Per quanto riguarda la collocazione internazionale, è pertanto difficile ipotizzare un ingresso della Margherita nel Pse (il Partito Socialista Europeo, dove si collocano i Ds; oggi la Margherita si trova a far parte del gruppo dei Liberali Europei, a fianco dei Radicali).
I cattolici non possono accettare un’egemonia culturale, oltreché politica, dell’ideologia socialdemocratica. Naturalmente bisogna dire lo stesso dei postcomunisti diessini.
Tuttavia, la questione della collocazione internazionale può essere superata, ciò che è unito in Italia potrebbe presentarsi diviso in Europa, o potrebbe essere fondato un nuovo gruppo parlamentare europeo, una sorta di Pde, che incontrerebbe facilmente il consenso di Tony Blair e del suo New Labour, che trova difficoltà a schierarsi dalla parte dei socialisti.
Ma il problema della doppia identità permane. E se prima ho scritto che trovo sciocco ignorarlo, ora aggiungo che è anche pericoloso, in quanto un partito nato da orientamenti disomogenei rischia di costituire una bomba ad orologeria, pronta ad esplodere non appena si parli di eutanasia, ricerca scientifica o coppie di fatto. E il neonato partito avrebbe vita breve. Se finora Ds e Margherita hanno saputo convivere, lo si deve ad un livello di integrazione diverso. Una cosa è infatti un’alleanza politica, altra è un partito unico. Una cosa è procedere da posizioni diverse per giungere ad un orientamento comune, e altra è portare avanti una precisa visione del mondo e della società.
Walter Veltroni afferma che, perché si costituisca il Partito Democratico, sia necessario che le forze che ad esso si richiamano comprendano di dover superare la loro separatezza. Senz’altro auspicabile, ma altamente improbabile.

Partito Democratico: una sfida necessaria

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Alessandro Maria Baroni

Un anno, o forse meno. Ecco quanto manca allo scatenamento di quello che potrebbe essere un vero e proprio terremoto politico. Il terremoto in questione è comunemente chiamato Partito democratico. Il condizionale è ancora d’obbligo. Forse più per scaramanzia. O forse perché bisogna ancora affrontare intricati quanto estenuanti passaggi congressuali in cui può accadere davvero di tutto – e solo chi li ha vissuti potrà concordare. Personalmente, aspetto con ansia il momento in cui potrò lasciarmi andare ad un perentorio quanto categorico indicativo: quel futuro semplice che indica una certezza assodata.
Fortunatamente di questi tempi si sta affermando sempre più il secondo dei due modi verbali. “Meglio tardi che mai!” dicono alcuni, “Dio ce ne scampi e liberi!”, serrano gli scudi altri. Ma sta di fatto che per la primavera del prossimo anno sono convocati i Congressi (probabilmente gli ultimi) dei due maggiori azionisti – Democratici di Sinistra e Margherita – e per la fine dell’anno, inizi del 2008 l’Assemblea Costituente del fantomatico Partito democratico.
Ma siamo scuri che sia questa la via migliore da intraprendere per il nostro centrosinistra? Io sono tra quelli che sono pronti a scommettere di sì. Le ragioni a favore potrebbero essere innumerevoli, ma mi limiterò a sviluppare le più significative.
Partiamo dall’attualità politica. Romano Prodi è il Presidente del Consiglio in carica ormai da cinque mesi. Si ripropone così, a dieci anni di distanza, una delle innumerevoli anomalie del nostro Bel Paese. Per cui non solo il premier non è il leader della prima formazione politica della maggioranza – i Ds, in questo caso -, ma addirittura non appartiene ufficialmente a nessuno dei partiti che compongono la coalizione. Nessun problema se avesse un ferreo rapporto con i partiti maggioritari dello schieramento, ma purtroppo l’asse Prodi-Ds-Dl pare non avere una grande continuità. Tutto questo rende senza dubbio Prodi maggiormente soggetto alle pressioni della sinistra radicale che, dopo il “blocco riformista”, è la seconda azionista di questa maggioranza. Il partito democratico risolverebbe di certo buona parte di questi problemi. Innanzitutto dando finalmente una “casa” al premier e facendo sì che abbia quel costante supporto politico quotidiano che ogni capo di un governo deve necessariamente avere. Per l’esecutivo avere una doppia guida riformista è quanto di più deleterio possa esservi. Tutto ciò non fa altro che dilatare nel tempo la soluzione delle inevitabili tensioni ed intoppi che attanagliano l’attività parlamentare. Con un forte e saldo timone riformista in grado di tracciare la rotta in modo netto, si consentirebbe al pettine di incappare in molti meno nodi.
Ma la prima vera ragione della nascita del Partito democratico è un’altra. È ormai sotto agli occhi di tutti che tutte le culture politiche, così come ci sono arrivate dal ‘900, non sono più assolutamente in grado di dare risposte adeguate alle esigenze della società. Le problematiche che una potenza industriale quale è l’Italia, Paese che all’occorrenza sa porsi come un attore protagonista della scena politica globale, deve affrontare sono tante e tali che nessuno può porsi come il grande salvatore. Se la destra ha trovato una via nell’approccio populista e demagogico, in cui il rapporto capo-popolo è l’elemento con cui si vuole trasmettere tranquillità e sicurezza, nella sinistra la situazione è più variegata. E in riferimento al nostro caso italiano appare particolarmente complessa poiché oltre alle due anime presenti pressoché ovunque nel centrosinistra europeo – quella socialdemocratica e quella della sinistra radicale - è presente una terza decisiva componente: quella cattolico-democratica d’ispirazione cristiano-sociale. Ma andiamo per ordine.
In Italia, volenti o nolenti, la sinistra radicale ha un peso notevole. Raccoglie circa il 10 per cento dei consensi e si inserisce in un disegno di contestazione del ordine economico globale facendosi portatrice di ideali pacifisti. Non raggiunge tuttavia posizioni così oltranziste, come avviene ad esempio in Francia o in Germania, tanto da poter prendere parte ad una coalizione di governo, ovviamente cortei incomprensibili quanto folcloristici permettendo.
Quanto alla socialdemocrazia, di certo non possiamo dire che goda di ottima salute. Nemmeno nella cara vecchia Svezia ciò che propone è preso come oro colato, tanto che è stata condannata all’opposizione dopo circa settant’anni di governo. E in Italia non è mai riuscita ad imporsi in modo netto. I Ds datano il loro massimo storico, tra l’altro quando erano ancora Pds, nel 1996 col 20,1 per cento per crollare al 16,6 nel 2001 e rimanere impalati al 17,5 nel 2006. Da notare che il minimo storico dei laburisti inglesi si aggira attorno al 27 per cento. Un dato che non può non far riflettere. Se a ciò si aggiunge che il più grande sostenitore della costruzione di una forza socialdemocratica in Italia, Massimo D’Alema, è oggi tra i primi a sostenere strenuamente la necessità di costruire un Partito democratico, è evidente che qualcosa non è andato proprio come previsto.
Veniamo ora alla tradizione cattolico democratica che ha rappresentato e rappresenta, in un certo senso, tutt’ora la forza maggiore nel nostro Paese. All’indomani di tangentopoli e del crollo del vecchio sistema dei partiti, con lo scioglimento della Democrazia cristiana si è avuta una vera e propria diaspora dei militanti democristiani in una miriade di partiti. E nel centrosinistra è approdata quel pezzo della sinistra Dc che più faceva suo l’intento del grande Alcide De Gasperi di un partito collocato al centro, ma stabilmente orientato verso sinistra. Quella componente maggiormente sensibile alle tematiche sociali che rifiuta nettamente l’involuzione neo conservatrice e la deriva verso destra della tradizione popolare. È un’area che ha un peso notevole nel centrosinistra, ma che non ha una forza tale da poter ottenere consensi tali da egemonizzare la coalizione.
Oggigiorno entrambi i partiti di riferimento di queste due aree – Ds e Margherita – sono percepiti dall’elettorato come degli “ex” o dei “post” di un qualcosa che è stato prima. Un qualcosa che ai più giovani può risultare addirittura sconosciuto. Si tratta di formazioni troppo sovrapponibili per le rispettive opinioni su molti temi e con un’identità per certi versi troppo appannata, o comunque percepita solo dai più ferventi militanti. Ma un partito che si rivolge solo ai militanti è un partito destinato a morire. Pertanto, grazie al crollo dell’equilibrio bipolare e con esso delle ideologie, sono caduti quegli steccati insormontabili ed è stato possibile intavolare una collaborazione politica che riunisse tutti i partiti con uno spiccato profilo di governo di chiaro stampo riformatore.
L’obiettivo del Partito democratico è l’unico che può ridare un ruolo alla sinistra nel XXI secolo. Un ruolo che non la veda arrancare dietro a continui richiami ad un’identità che non interessa minimamente a chi davvero occupa gli ultimi posti delle graduatorie sociali, ma che la veda in prima fila per pianificare una seria, equa e rigorosa governance della società, dando risposte concrete e pronte a tutti coloro che hanno bisogno di essere sostenuti e promovendo al massimo quello che sono le enormi capacità di tantissimi privati cittadini.
Solo col Partito democratico i cittadini ritroveranno fiducia nella politica. Ed è questa la terza fondamentale ragione del perché dovrebbe nascere. È davvero preoccupante come questo rapporto sia costantemente andato sfilacciandosi ed è impressionante come la politica non sia ancora stata in grado di mettere in atto le dovute contromisure. Il rischio di un così largo senso di sfiducia potrebbe avere conseguenze devastanti. Ma gli italiani, e soprattutto i giovani, hanno fatto capire a più riprese di non essere stanchi della democrazia. Lo dimostrano la larga partecipazione al referendum costituzionale con cui i cittadini si sono “riappropriati” della tanto bistrattata Costituzione e i livelli di partecipazione al voto che sono sempre tra i più alti d’Europa. Insomma, la domanda di partecipazione è presente e viva. È l’offerta che risulta essere di qualità infima. I cittadini chiedono partiti nuovi, non in aggiunta a questi, ma che sostituiscano un arco parlamentare ancora troppo legato logiche del passato. Chiedono soprattutto forme nuove di partecipazione. E l’impressionante partecipazione – 4,5 milioni di persone - alle primarie del centrosinistra dello scorso ne sono la più alta dimostrazione. Chiedono la stabilizzazione di un sistema politico che sia saldamente incardinato sul bipolarismo in cui chi perde, o ha governato male, viene mandato a casa rapidamente.
Su un progetto di questo tipo non vige, soprattutto all’interno dei partiti esistenti oggi, un consenso totale. Molte sono le critiche e guai se non vi fossero. Ma non penso sia molto onesto sollevare problemi in ottica meramente ostruzionistica e, soprattutto, senza proporre concretamente alcuna soluzione alternativa. O richiamarsi alla strenua difesa di identità che sono frutto più di retaggi del passato, invece di incentrarsi più a ciò che ci accomuna per il futuro. Il caso della futura collocazione europea del Pd è davvero eclatante. Questo è ad oggi uno dei punti di maggior frizione. Se infatti, da una parte la sinistra Ds non vede altra via se non quella di un Partito democratico che entri a far parte del socialismo europeo, dall’altra i democristiani di vecchia data – vedi Franco Marini e Rosy Bindi - ribattono dicendo di non voler morire socialisti. Un’affiliazione nuda e cruda al Pse non penso sia la strada da percorrere, ma è fuori da ogni dubbio che in ambito europeo il gruppo dei socialisti sono quello che rappresenta l’asse portante del centrosinistra. Sarà necessario che i socialisti a livello europeo avviino un dibattito al loro interno per vedere se, come molti auspicano, sia possibile poter allargare le maglie del partito ed includere tutti i riformisti e i progressisti che non provengono dalla storia socialista. È un dibattito che dovrà riguardare necessariamente anche l’Internazionale socialista. Bisogna decidere una volta per tutte se l’adesione ad un organismo come questo si basa sul profilo programmatico di un partito o se è sufficiente proclamarsi socialisti nel simbolo, anche se poi si appoggia un capo di governo come Yanukovic che tutto fa tranne che portare avanti politiche di stampo progressista, come nel caso del Partito socialista ucraino. Vista la portata del problema, in ultima istanza, si potrebbe anche ricorrere a consultare gli iscritti rinviandolo a quando questi potranno finalmente far sentire la loro voce.
D’altra parte non penso che sollevare i problemi etici come un altro ostacolo insormontabile alla nascita del Pd sia corretto. Innanzitutto perché penso che nessuno possa dire di avere la soluzione pronta ad ogni questione che si solleva in questo ambito, perché in un tema come questo le coscienza di ognuno è estremamente esposta e non necessariamente legate alle logiche del partito e infine perché se assunti come problemi da risolvere, e non come un pretesto per dividersi, una soluzione è sempre rintracciabile. Ne è una dimostrazione il voto unitario di tutto il centrosinistra a luglio in Senato su una mozione riguardante il tema della ricerca sulle cellule staminali. Continuare a dividersi tra laici e cattolici non ha senso. La vera contrapposizione, semmai, è tra laici – in cui vi è anche buona parte dei cattolici – e confessionali. Dove i primi sono coloro i quali che a prescindere dall’avere o meno una fede accettano le differenze nella società, ma soprattutto le rispettano e i secondi sono coloro che sono convinti di essere i detentori della verità assoluta e sono disposti a tutto pur di elevarla a legge universale.
La laicità di un futuro Partito democratico non sarà minimamente a rischio perché i confessionali presenti in questo schieramento sono fortunatamente un gruppo assai sparuto. E faremmo tutti bene se ci rinfrescassimo di tanto in tanto la memoria con quello che disse Don Luigi Sturzo sui cattolici impegnati in politica. "È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico. I due termini sono antitetici; il cattolicismo è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall'inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione”.
Per tutti questi motivi penso sia indispensabile la nascita di Partito democratico. Una formazione che sappia raccogliere la sfida della sinistra del 2000: fare suoi ed unire ai più alti livelli libertà ed equità. Sarà proprio la pluralità di fondo e l’incontro delle culture socialdemocratica, cattolico democratica e laico repubblicana a permettere a quello che oggi si prospetta quasi come un sogno di divenire una splendida realtà. Palmiro Togliatti, per quanto possa essere una figura su certi aspetti discutibile, diceva: “I partiti sono la democrazia che si organizza, i grandi partiti sono la democrazia che si afferma.” Speriamo che l’Italia possa colmare questo vuoto.

Scrivere di America

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Alessandro Capocaccia

Perché è difficile scrivere qualcosa di America? E’ difficile perché l’America è composta da molti americani. 300 milioni, per l’esattezza. Bella scoperta, ogni paese è composto da alcuni, o tanti, milioni di abitanti. Eh ma qua si parla di America. Sapete qual è la prima volta che compare la parola “individualismo” nella lingua inglese? Nella traduzione de “De la démocratie en Amérique”, di Alexis de Tocqueville. Parlando di America, e degli americani, appunto. Perché, sì, la società americana, la non-società, se vogliamo, è tanto complessa quanto è ampio lo spettro formato da tutti gli individui che la compongono.
Tutto il mondo parla di America, dei suoi governi, delle sue politiche, dei suoi abitanti, di tutte le cose che l’America ha prodotto ed esportato. Anche per questo è difficile scrivere di America. Perché è un paese dotato di un potere radioattivo che non ci lascia scampo; nessun’altra potenza nella storia ha influenzato il pianeta in egual misura, in tutte le arti, più o meno nobili, e in tutti i costumi più o meno apprezzabili. Parlare di America è come guardare attraverso un caleidoscopio, si guarda lo stesso buco, ma ogni volta al suo interno una differente combinazione di specchi e una diversa disposizione dei frammenti di vetro che contiene ci danno un’immagine diversa.
Scrivo a poca distanza dalle elezioni di midterm, che hanno portato il Partito democratico ad avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Immancabilmente sono state precedute da una ridda di commenti, giudizi, auspici su chi avrebbe vinto. Altrettanto immancabilmente sono seguiti altri commenti giudizi e auspici. Credo che operare una distinzione tra due diversi approcci alla politica americana sia fondamentale, quello del cittadino americano, e quello del cittadino non americano. Il giudizio sulle elezioni americane, dato da chi americano non è, si basa in larga misura su ciò che si auspica, coerentemente con il proprio pensiero e la propria ideologia, essere il comportamento dell’America verso il mondo. La politica estera, insomma. Come dargli torto in fondo? Addirittura c’è qualcuno che sostiene, più ironicamente che altro, che tutto il mondo ha il diritto di partecipare all’elezione del presidente degli USA in quanto le decisioni di questi influenzano tutto il pianeta. Si vorrebbe che il nostro, di tutti, giudizio pesasse di più sulla politica americana.
La differenza con il cittadino di quel Paese, è però profonda come l’Atlantico che li separa. Gli americani, fortemente coerenti con la natura federalista statunitense, ai grandi temi internazionali rintengono più conveniente occuparsi (e preoccuparsi) delle questioni locali. “All politics is local” disse Thomas O’Neill, membro del Congresso per 34 anni e Speaker democratico della Camera per 10 anni. E questo anche se il paese è in guerra.
Politiche commerciali, aumento dei salari minimi, sussidi agli agricoltori, temi “etici”. In più scandali e contro scandali che hanno coinvolto ambo le parti. Sì perché che gli americani decidino anche in base al comportamento, anche il più intimo, di chi è chiamato a rappresentarli è cosa nota. Da addurre al puritanesimo tanto inviso ai progressisti di casa nostra? Sì, ma non solo. E la convinzione che chi non si comporta in maniera giudicata consona alla morale in casa propria, non sarà nemmeno in grado di farlo quando non avrà in mano il governo solo dei propri interessi, anche i più intimi, ma anche di quelli di chi lo ha eletto. Stesso motivo per cui un ministro di giustizia si dimette per non aver assunto una colf immigrata irregolare. Probità e onestà fanno rima. Sono le due facce della stessa medaglia.
Non è un caso che Philip Roth definisca “la minaccia prevalente alla sicurezza del paese il “pompinismo”, riferendosi al sexgate.
Intendiamoci, la guerra in Iraq (meglio, la conduzione della guerra in Iraq, differenza sostanziale) ha avuto comunque un ruolo rilevante. L’amministrazione Bush, nonostante l’appena accennata correzione di rotta degli ultimi mesi, sembrava non avere una risposta al problema. Nemmeno i democratici, ma almeno non si sono direttamente macchiati di 3 anni di guerra, più o meno guerreggiata, disastrosi. Attenzione, non si creda che il cambiamento del balance of power al Congresso risulterà in particolari cambiamenti sul fronte estero. I repubblicani non avevano alcuna intenzione di presentarsi alle elezioni del 2008 senza aver apportato significativi novità all’impegno iracheno; impietoso degli insuccessi del fronte dei falchi (di cui fanno parte ideologi neoconservatori) già avanzava il fronte realista. Questi, a partire dalla commissione Baker-Hamilton sull’Iraq, già prevedeva il coinvolgimento della Siria al tavolo sulle crisi mediorientali, con l’obiettivo di isolare l’Iran nella sua corsa al nucleare e di spezzare la catena Tehran-Damasco-Beirut partendo dal suo anello più debole. La linea diplomatica di Condoleezza Rice sarà perseguita anche per il problema Corea del Nord. L’allontanamento di Donald Rumsfeld, oramai completamente sfiduciato dai vertici militari, preceduto da quello di Paul Wolfowitz, e, probabilmente, seguito da quello di John Bolton e l’isolamento di Dick Cheney, dimostra che lo strapotere neocon alla Casa Bianca è, se c’è stato, durato non più di 4 anni. I fallimenti da questi ottenuti sono d’altra parte innegabili e non potevano non passare inosservati.
E’ per questo motivo che chi scrive ha grande fiducia nell’America. Poco importano le critiche di casa nostra sui predicatori, sui bovari, sulle lobbies, sulla bassa affluenza alle urne e quindi sulla non-rappresentatività, sui rednecks, e tante altre. C’è Guantanamo, ci sono le menzogne sulle armi irachene, è vero sono tante le cose che possono far non piacere, o anche odiare, la caleidoscopica immagine dell’America. Ma non bisogna dimenticare che questo grande paese è un paese di contraddizioni; per ogni cosa, è vero anche il suo contrario. L' America era ed è il più grande paese multietnico, quello dove ci si batte di più per l'uguaglianza, per i diritti civili degli immigrati e delle donne. Dove è più avanzata la libertà di pensiero e di costumi.
Bisogna sempre guardare oltre la cortina che ci viene offerta anche, e soprattutto, in relazione a ciò che noi europei abbiamo in comune con il popolo d’oltreatlantico.
Scrive Tocqueville, “confesso che nell'America ho visto qualcosa più dell'America”. Per questo è così difficile scrivere di America.

Mercato del lavoro: superare il dualismo, crescere nell’efficienza

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Emilio Manfredi

Nelle analisi e nei dibattiti di questi mesi sull’economia italiana è emerso un concetto di fondo: la manovra finanziaria presentata dal governo Prodi va nella direzione giusta dal punto di vista del risanamento del bilancio pubblico e dell’equità, ma è priva di interventi efficaci per un attacco al cuore dei problemi del settore produttivo; è priva di interventi tali da poter effettivamente spingere il Paese verso la crescita.
Senza avere la pretesa di poter individuare con sicurezza i punti chiave per lo sviluppo economico italiano nella sua complessità, mi limito a segnalare gli aspetti salienti di un dibattito molto interessante che si è svolto, negli ultimi mesi, sulla riforma del mercato del lavoro del nostro Paese.
L’Italia è, insieme alla Germania, lo Stato dell’U.E. in cui si registrano i più ampi divari fra regioni nei livelli di reddito e occupazione. In più in Italia, come nel resto d’Europa, le regioni con il più basso reddito pro-capite coincidono con quelle con il più alto tasso di disoccupazione. Possibili vie d’uscita a questa situazione sono una maggiore mobilità nel mercato del lavoro e una maggiore flessibilità regionale dei salari. La contrattazione a livello nazionale dei salari non aiuta certo in questa direzione, determinando livelli troppo alti per le regioni con bassa produttività (e con costo della vita inferiore) e favorendo conseguentemente la crescita del sommerso. In mancanza di crescita economica sostenuta, per creare più occupazione è necessario ridurre il costo del lavoro rispetto alla produttività o aumentare la flessibilità. Ma come conseguire quest’ultimo scopo in un mercato del lavoro come quello italiano, in cui ormai da anni ( e già da prima dell’introduzione della “legge Biagi”), domina un fortissimo dualismo, basato su un'artificiosa e ingiustificata disparità di trattamento fra lavoratori subordinati e para-subordinati?
Quella della flessibilità non è un’esigenza di questi mesi e le riforme degli ultimi anni hanno cercato proprio di scongelare un assetto eccessivamente rigido del lavoro tipico. La strada percorsa finora è stata quella di aumentare la flessibilità solo per le fasce marginali del mercato del lavoro, creando precarietà a bassi salari e scaricandone il peso principalmente sulle nuove generazioni. La sfida che si pone ora, quindi, è quella di perseguire l’obiettivo della maggiore efficienza del sistema nel suo complesso attraverso la flessibilità, adottando, allo stesso tempo, le misure necessarie affinché questa sia un trampolino di lancio verso occupazioni più stabili e meglio retribuite nel
tempo e alla condizione che il nuovo regime si instauri per tutti i lavoratori. Questa sfida comporta inevitabilmente la necessità di affrontare di petto il problema della riunificazione del diritto del lavoro. Ed eccoci alle proposte sollevate in questi mesi, che descrivo brevemente.
La prima, avanzata dalla CGIL sulla scia del congresso di Marzo di quest’anno, prevede l’estensione dello Statuto dei Lavoratori a tutti i rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente. L’obiettivo di superare la disparità di trattamento tra subordinazione para-subordinazione e di smantellare la selva dei contratti di lavoro atipici viene perseguito con l’introduzione di un solo contratto di lavoro possibile, quello a tempo indeterminato, e di unico regime di protezione. Un simile assetto porterebbe, secondo i critici, a un irrigidimento ancora maggiore del mercato e alla perdita dell’impiego per migliaia di attuali precari.
Le altre proposte affrontano il problema prevedendo l’introduzione per tutti di un unico dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità, passando necessariamente per un periodo di transizione con protezione più debole. Tale sistema avrebbe il pregio di facilitare fortemente, per tutti, l’incontro di domanda e offerta di lavoro. Nello specifico, la prima delle altre due proposte, presentata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi, prevede un unico rapporto di lavoro, a tempo indeterminato, con una forte protezione e tutela in base all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori contro discriminazioni e licenziamenti disciplinari ingiustificati. Contempla un periodo di prova per i primi sei mesi di lavoro, cui segue, nei tre anni di lavoro successivi, una protezione solo indennitaria contro i licenziamenti economico-organizzativi. Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato prevede una durata massima di due anni. Suggerisce inoltre l’introduzione un salario minimo, (che in Italia sarebbe eventualmente più efficace se differenziato per regioni e classi d’età), e un’uniformazione dei contributi previdenziali indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro.
La seconda ipotesi, quella presentata da Andrea Ichino, introduce il “contratto temporaneo limitato”, di durata non inferiore ai tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa dallo stesso lavoratore. Questi può fruire del CTL per al massimo tre volte in imprese diverse, con costi di transazione ridotti al minimo. Quest’ultima proposta prevede quindi grande libertà di sperimentazione con il lavoratore a termine in un periodo di tempo sufficientemente ampio. Agevola tra l’altro notevolmente, (come anche l’ipotesi descritta prima), l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro da parte di quei soggetti (giovani, donne dopo la maternità, lavoratori maturi o anziani) che avrebbero maggiori difficoltà a trovare una nuova collocazione con un contratto a tempo indeterminato.

Sul buon governo del relativismo etico

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Tommaso Jacopo Ulissi

Sull’interessante “terra di nessuno”, residuo ultimo ed ineliminabile della coscienza individuale in cui possono operare gli strumenti filosofici ontologicamente deputati al trattamento delle questioni etiche, al fine di partorire un incatalogabile giudizio di valore finale, oramai tutti, ministri tanto della cosa pubblica quanto del culto religioso, tentano d’ innalzare la propria bandiera culturale avendo già da tempo compreso, da bravi politici quali sono( per fortuna in un caso, purtroppo nell’altro), quanto gli elettori fedeli ( o i fedeli elettori…) si stiano risvegliando dal torpore d’uno statico quadro finalmente incrinato e, con vigorosi strattoni e veloci rinnegamenti, costruiscono mattone su mattone la propria roccaforte elettorale.
La fretta però spesso conduce alla mancanza di un’adeguata preparazione, quantomai necessaria nella discussione in materia etica: incerte e variopinte considerazioni riecheggiano nei luoghi del potere e ambigue e grottesche dissertazioni sul concetto di vita, e peggio ancora sulla presunta sacralità della stessa, confondono il singolo che, tra frastornati risvegli ideologici e istintivi ripiegamenti fideistici, delega ad altri il compito di risolvere la questione. Il problema è che ciò non è possibile: non si tratta di giudizi tecnici, ma giudizi di valore che un necessario esercizio dello spirito critico deve partorire; o quanto mai la probabile e pacifica indecisione ineliminabile deve essere frutto non di un acritico diniego, ma d’una battaglia impari con l’indimostrabilità di ciò che personalmente è considerato eticamente valido.
Chiaro dunque come tutti debbano confrontarsi con il concetto di vita e necessariamente anche con quello di morte, complementare e indispensabile. Spesso però questo avviene confondendo il significato dei termini utilizzati nella discussione con quello consolidatosi nel tempo. Ecco che risalta l’enorme differenza tra il concetto di vita e quello di esistenza: l’uno, scientificamente inteso, come ente caratterizzato da processi biochimici di natura metabolica, l’altro è il valore donato alla vita. Si tratta di una trasformazione assiologica di ciò che è per definizione neutro ed empiricamente riscontrabile in ciò che neutro non è: svaniscono i fraintendimenti ed emergono le sfumature che sono alla base d’ogni questione etica che deve essere trattata con gli strumenti giuridici propri dell’agire politico, i quali, oggettivi e imparziali, debbono operare su un tessuto ben più contorto e nervoso per le mille ragioni mutuabili dalla metafisica, dalle religioni, dalle ideologie o da qualunque forma di tradizione in cui ci si riconosce.
Temi attualissimi come la fecondazione medicalmente assistita, il testamento biologico o l’eutanasia, cosi come per il loro predecessore, l’“aborto”, si trovano in un confine labile e quanto mai frutto della percezione personale, inevitabilmente omnicomprensiva, della realtà circostante: è il confine tra ciò che è possibile e ciò che è lecito; l’uno rispondente solamente a variabili tecnologiche, l’altro a sistemi di valori che trascendono il dimostrabile. La decisione finale, necessaria fisiologicamente nell’organizzazione democratica d’un consorzio civile, non potrà dunque sancire la giustezza di un’esistenza piuttosto che di un’altra proprio perché essa non è né dimostrabile in maniera incontrovertibile né fondabile su valori condivisi: non resta null’altro che ampliare la libertà di scelta del singolo dal piano etico al piano fattuale, permettendo che tutte le possibili esistenze abbiano l’equa possibilità di realizzarsi e che nessuna abbia a prevalere sulle altre, anche se storicamente per tradizione cosi è stato.
Tutto questo richiede da parte dello Stato un esercizio del potere ideologicamente neutro: questo non vuol dire che esso debba sollevarsi a Demiurgo della vita pubblica, sanzionando percezioni personali che possano eludere l’utilizzo razionale della conoscenza richiamandosi piuttosto a valori metafisici e religiosi, cosi da scadere nella formazione di un’ etica pubblica d’impronta statale che mal d’adatta alla fisionomia poliedrica della società civile, ma valorizzando la benevola diversità d’opinione, lievito indispensabile in una democrazia non solo formale.
Una sana laicità di carattere inclusivo è dunque l’humus fertile in cui la libertà d’ogni singolo individuo può esplicarsi, contribuendo così alla messa in scena d’un’armoniosa polifonia sociale senza solisti presuntuosi ma con una direzione d’orchestra intelligente al punto da intuire che la sensibilità di ognuno dei partecipanti è unica nel valore della propria esistenza.

La più antica e nobile sorella del francese

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Edoardo Berionni Berna

“ Una volta che affiora in un modo o nell’altro la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi.”
A.Gramsci, Quaderno 29

Allegretto ma non troppo
Essere italiano comporta una sola sfortuna: parlare una lingua geograficamente diffusa soltanto nella penisola italiana ed utilizzata da soli italiani che non sanno – per giunta- minimamente apprezzarne la bellezza. Il suo intrinseco incanto colpisce però sempre gli stranieri che non desistono mai dall’elogiarne la musicalità e l’armonia.
Questa ingiusta combinazione di eventi trova sua plausibile risposta in questa spiegazione:
il viaggiatore anglofono in visita a Roma non conosce il contenuto semantico di una parola italiana, ma è profondamente in grado di apprezzarne il suono e la musica.
In altre parole, sa assaporare nel più profondo il significante di un segno linguistico ( la parola), perché intellettualmente incapace di comprenderne il significato.
Avviene invece il contrario per un italiano madre-lingua, il quale conosce perfettamente il significato di una parola italiana, ma non è più in grado di apprezzarne l’elemento fonico e musicale,il fonema cioè il significante. Apprezzare quest’ultimo significherebbe acquisire la consapevolezza di un Proprio- io che si manifesta nella musica delle proprie parole,
il che è impossibile per due ragioni: pochi sanno ascoltare se stessi, nessuno sa auto-comprendersi esteticamente.

Largo
Questa irreparabile sfortuna impedisce a chiunque di esprimere giudizi determinanti sul proprio linguaggio, in quanto non sarebbe poi in grado di darne fondata giustificazione razionale.
Promuovere la propria cultura linguistica all’estero senza saperne effettivamente il perché si traduce in un solo sentimento: l’orgoglio. Quello vero.
Scrisse Schopenhauer nel suo irriverente libello Die Kunst, Recht zu behalten:
“La terza lingua classica di cui si parla è… il francese. Dunque questo miserrimo gergo romanzo, questa pessima mutilazione di parole latine, questa lingua che dovrebbe guardare con profondo rispetto alla sua più antica e assai più nobile sorella , l’italiano, questa lingua che ha come esclusiva peculiarità il disgustoso suono nasale, en , on, un, come pure il singhiozzante accento così indicibilmente ripugnante sull’ultima sillaba, mentre tutte le altre lingue hanno la penultima lunga, che produce un effetto così delicato e pacato, questa lingua nella quale non esiste metro, ma solo rima, per lo più in è o on, costituisce la forma della poesia: questa lingua meschina viene qui posta come langue classique accanto al greco e al latino!”
Meno offensiva -questa volta rivolgendosi all’intelligenza britannica- è la spontanea considerazione sulla lingua inglese di Ortega ne l’Uomo e la Gente :
“L’abbandono alle leggi fonetiche porterebbe ad un linguaggio di monosillabi equivoci, molti dei quali tra loro identici.[…] Sospettiamo a volte che, se un inglese comprende un altro inglese, è perché -essendo di solito la loro conversazione fatta di puri luoghi comuni- ciascuno sa in anticipo quel che l’altro dirà”.

Andante
Sul destino di noi Italiani grava tuttavia un’ulteriore responsabilità derivante da una eredità linguistica riconosciuta ed enormemente apprezzata dagli stranieri che definiscono la lingua italiana bella perché in grado di evocare in loro un sentimento quasi kantiano di piacere disinteressato. Circa l’85% degli studenti stranieri infatti dichiara di studiare l’italiano per puro piacere personale.
Tutto ciò legittima quel senso di responsabilità che spinge gli Italiani ad alimentare tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà d'Italia che si accresce nel dovere.
È una forma questa di responsabilità, forse meritevole di essere inserita post litteram all’interno della vorticosa prosa mazziniana dei Doveri. È il dovere morale ( e non etico) di estendere i confini “sublimi”della lingua e della cultura italiana in Europa e nel Mondo, farla conoscere per conoscerla. Sentire uno studente erasmus olandese parlare italiano non può che contribuire alla ricchezza del nostro Paese ed in fondo anche a quella europea che cresce così linguisticamente ed artisticamente. È un modo alternativo per incoraggiare un’idea d’Europa in cui credere, in cui credo
Che un olandese parli italiano è un fatto di per sé sorprendente ed assai significativo:
le distanze si stanno accorciando.

Andantino con moto
“Quando operiamo con la parola comune dimentichiamo che si tratta di frammenti di storie antiche ed eterne, e che, come barbari, edifichiamo le nostre case con frammenti di sculture e statue degli dei.” Questo solenne pensiero dello scrittore e disegnatore polacco Bruno Schulz invita chiunque a riflettere sul proprio dicere e ci responsabilizza a pagare un oneroso tributo al frustrante genio passato che vive nella segreta musica delle parole, antichi usi che cantano e continuano a cantare eternamente l’amore di Dante, la pazzia di Tasso, il senso di ricerca infinita di Ariosto e Galileo, il Dio di Manzoni, l’Umanità di Leopardi.

Presto
In questa direzione mi sento di esprimere un sincero apprezzamento verso la scelta da parte del nostro ministro Francesco Rutelli di nominare una commissione per riscrivere il linguaggio dei beni culturali. Meglio Libreria che Bookstore, meglio Caffè che Coffee-house, meglio Oggetti che Gadgets e soprattutto meglio Biglietti che Ticketeria ( termine incestuoso).
“Meglio evitare l’utilizzo di termini stranieri, in particolare di inutili anglicismi, qualora non si tratti di neologismi correnti privi di una corrispondente espressione in italiano.” Così recita la circolare, il cui testo ricorda inoltre che uno dei compiti del ministero è“ contribuire a formare e diffondere una cultura nazionale della quale la lingua italiana rappresenta un fondamento imprescindibile.” L’aspetto linguistico non è dunque secondario.
Come scrisse Terzani in Lettere dall’Himalaya, è bene “riprendere certe tradizioni di correttezza, rimpossessarsi della lingua, in cui la parola Dio è oggi diventata una sorta di oscenità e tornare a dire “fare l’amore” e non “fare sesso”. Alla lunga, anche questo fa una grossa differenza.

Cantabile
I più sono convinti che l’uso di parole straniere sia indispensabile per ovvie esigenze referenziali di sintesi. Altri sono convinti che certe parole straniere siano pressoché intraducibili. In parte è vero, perché ad usi sociali diversi corrispondono lingue diverse. È una tendenza, non una legge.
Pochi giorni fa, rileggendo Dante ho scoperto con sorpresa l’esistenza di un termine che l’Ortega linguista credeva esistesse soltanto nella lingua spagnola: l’ensimismamiento. Intraducibile ?
In realtà esiste un corrispondente lessicale italiano a questo splendido vocabolo dell’idioma spagnolo.
Già non attendere' io tua dimanda,
s'io m'intuassi, come tu t'inmii
” ( Par. IX, 80-81).

Inmiarsi è parlare con se stessi, in lingua italiana.