venerdì 28 dicembre 2007

Scrivere di America

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Alessandro Capocaccia

Perché è difficile scrivere qualcosa di America? E’ difficile perché l’America è composta da molti americani. 300 milioni, per l’esattezza. Bella scoperta, ogni paese è composto da alcuni, o tanti, milioni di abitanti. Eh ma qua si parla di America. Sapete qual è la prima volta che compare la parola “individualismo” nella lingua inglese? Nella traduzione de “De la démocratie en Amérique”, di Alexis de Tocqueville. Parlando di America, e degli americani, appunto. Perché, sì, la società americana, la non-società, se vogliamo, è tanto complessa quanto è ampio lo spettro formato da tutti gli individui che la compongono.
Tutto il mondo parla di America, dei suoi governi, delle sue politiche, dei suoi abitanti, di tutte le cose che l’America ha prodotto ed esportato. Anche per questo è difficile scrivere di America. Perché è un paese dotato di un potere radioattivo che non ci lascia scampo; nessun’altra potenza nella storia ha influenzato il pianeta in egual misura, in tutte le arti, più o meno nobili, e in tutti i costumi più o meno apprezzabili. Parlare di America è come guardare attraverso un caleidoscopio, si guarda lo stesso buco, ma ogni volta al suo interno una differente combinazione di specchi e una diversa disposizione dei frammenti di vetro che contiene ci danno un’immagine diversa.
Scrivo a poca distanza dalle elezioni di midterm, che hanno portato il Partito democratico ad avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Immancabilmente sono state precedute da una ridda di commenti, giudizi, auspici su chi avrebbe vinto. Altrettanto immancabilmente sono seguiti altri commenti giudizi e auspici. Credo che operare una distinzione tra due diversi approcci alla politica americana sia fondamentale, quello del cittadino americano, e quello del cittadino non americano. Il giudizio sulle elezioni americane, dato da chi americano non è, si basa in larga misura su ciò che si auspica, coerentemente con il proprio pensiero e la propria ideologia, essere il comportamento dell’America verso il mondo. La politica estera, insomma. Come dargli torto in fondo? Addirittura c’è qualcuno che sostiene, più ironicamente che altro, che tutto il mondo ha il diritto di partecipare all’elezione del presidente degli USA in quanto le decisioni di questi influenzano tutto il pianeta. Si vorrebbe che il nostro, di tutti, giudizio pesasse di più sulla politica americana.
La differenza con il cittadino di quel Paese, è però profonda come l’Atlantico che li separa. Gli americani, fortemente coerenti con la natura federalista statunitense, ai grandi temi internazionali rintengono più conveniente occuparsi (e preoccuparsi) delle questioni locali. “All politics is local” disse Thomas O’Neill, membro del Congresso per 34 anni e Speaker democratico della Camera per 10 anni. E questo anche se il paese è in guerra.
Politiche commerciali, aumento dei salari minimi, sussidi agli agricoltori, temi “etici”. In più scandali e contro scandali che hanno coinvolto ambo le parti. Sì perché che gli americani decidino anche in base al comportamento, anche il più intimo, di chi è chiamato a rappresentarli è cosa nota. Da addurre al puritanesimo tanto inviso ai progressisti di casa nostra? Sì, ma non solo. E la convinzione che chi non si comporta in maniera giudicata consona alla morale in casa propria, non sarà nemmeno in grado di farlo quando non avrà in mano il governo solo dei propri interessi, anche i più intimi, ma anche di quelli di chi lo ha eletto. Stesso motivo per cui un ministro di giustizia si dimette per non aver assunto una colf immigrata irregolare. Probità e onestà fanno rima. Sono le due facce della stessa medaglia.
Non è un caso che Philip Roth definisca “la minaccia prevalente alla sicurezza del paese il “pompinismo”, riferendosi al sexgate.
Intendiamoci, la guerra in Iraq (meglio, la conduzione della guerra in Iraq, differenza sostanziale) ha avuto comunque un ruolo rilevante. L’amministrazione Bush, nonostante l’appena accennata correzione di rotta degli ultimi mesi, sembrava non avere una risposta al problema. Nemmeno i democratici, ma almeno non si sono direttamente macchiati di 3 anni di guerra, più o meno guerreggiata, disastrosi. Attenzione, non si creda che il cambiamento del balance of power al Congresso risulterà in particolari cambiamenti sul fronte estero. I repubblicani non avevano alcuna intenzione di presentarsi alle elezioni del 2008 senza aver apportato significativi novità all’impegno iracheno; impietoso degli insuccessi del fronte dei falchi (di cui fanno parte ideologi neoconservatori) già avanzava il fronte realista. Questi, a partire dalla commissione Baker-Hamilton sull’Iraq, già prevedeva il coinvolgimento della Siria al tavolo sulle crisi mediorientali, con l’obiettivo di isolare l’Iran nella sua corsa al nucleare e di spezzare la catena Tehran-Damasco-Beirut partendo dal suo anello più debole. La linea diplomatica di Condoleezza Rice sarà perseguita anche per il problema Corea del Nord. L’allontanamento di Donald Rumsfeld, oramai completamente sfiduciato dai vertici militari, preceduto da quello di Paul Wolfowitz, e, probabilmente, seguito da quello di John Bolton e l’isolamento di Dick Cheney, dimostra che lo strapotere neocon alla Casa Bianca è, se c’è stato, durato non più di 4 anni. I fallimenti da questi ottenuti sono d’altra parte innegabili e non potevano non passare inosservati.
E’ per questo motivo che chi scrive ha grande fiducia nell’America. Poco importano le critiche di casa nostra sui predicatori, sui bovari, sulle lobbies, sulla bassa affluenza alle urne e quindi sulla non-rappresentatività, sui rednecks, e tante altre. C’è Guantanamo, ci sono le menzogne sulle armi irachene, è vero sono tante le cose che possono far non piacere, o anche odiare, la caleidoscopica immagine dell’America. Ma non bisogna dimenticare che questo grande paese è un paese di contraddizioni; per ogni cosa, è vero anche il suo contrario. L' America era ed è il più grande paese multietnico, quello dove ci si batte di più per l'uguaglianza, per i diritti civili degli immigrati e delle donne. Dove è più avanzata la libertà di pensiero e di costumi.
Bisogna sempre guardare oltre la cortina che ci viene offerta anche, e soprattutto, in relazione a ciò che noi europei abbiamo in comune con il popolo d’oltreatlantico.
Scrive Tocqueville, “confesso che nell'America ho visto qualcosa più dell'America”. Per questo è così difficile scrivere di America.

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