venerdì 28 dicembre 2007

Quando la politica si fa arte

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Alessandro Maria Baroni

È uno splendido sabato pomeriggio di metà inverno. Uno di quei pomeriggi che ti invoglia ad uscire di casa, magari per un bella passeggiata in centro, a prendere qualcosa di caldo al bar, o a fare due compere. Ma forse è meglio di no. Meglio non rischiare. Se generalmente indossi un eskimo, porti jeans un po’ scoloriti, hai i capelli non proprio rasati a zero o ti piace la barba leggermente incolta, niente centro, niente Bar Italia, noto covo di missini e neofascisti, niente compere. Meglio rifugiarsi nel solito posto, il solito circolo Arci, che non garantirà un divertimento da sballo, ma almeno di tornare a casa la sera sano e salvo. Meglio poi portare sempre con sé un documento d’identità valido. Non si sa mai. Di questi tempi basta incontrare il poliziotto sbagliato che ti scambia per un brigatista e finisci dritto dritto in Questura. L’accusa? Essere un po’ troppo fricchettone.
Purtroppo non bisogna andare troppo indietro nel tempo perché un nostro coetaneo facesse un ragionamento di questo tipo nel decidere come passare un qualunque sabato pomeriggio. Fino all’incirca a vent’anni fa praticamente tutte le città italiane, se non le erano in toto, erano divise in zone rosse e zone nere. Dove chi era, o solamente sembrava, rispettivamente di destra o di sinistra era meglio che si tenesse alla larga dalla zona nemica. I tuoi amici dovevano essere tutti rossi o tutti neri: guai ad andare d’accordo un po’ con tutti. A seconda che tu fossi di una parte o dell’altra dovevi fare certe cose, vestirti in un certo modo, usare determinati oggetti. Giravi in 2 cavalli? Eri di sinistra. La golf? Nota macchina di destra.
L’Italia era divisa all’interno da una sottile cortina di ferro. Troppi gli strascichi lasciati dal vecchio regime fascista, fortissimo il consenso verso i partiti di sinistra, tanti i nostalgici del “si stava meglio quando si stava peggio”. Il Paese era terribilmente ideologizzato e i gruppi più estremisti trovavano un grande terreno fertile per incunearsi nel tessuto sociale e tentare di destabilizzare il sistema della fragile e giovane Repubblica a colpi di attentati, bombe e idioti processi proletari.
Ma se nel 2007, dopo quasi 61 anni, viviamo ancora in una Repubblica democratica, lo dobbiamo al fatto che allora la parola politica si scriveva con la “P” maiuscola. Allora sì che c’erano grandi Partiti di massa, realmente democratici, che nonostante le opposte visioni su determinati temi riuscirono a compiere un vero e proprio capolavoro. Il capolavoro di mantenere unito un tessuto sociale che era sull’orlo della disgregazione e dello sfaldamento. Il capolavoro di porre in essere acerrimi scontri politici, salvo poi sedersi tutti attorno ad un tavolo con grande saggezza per raggiungere accordi con mediazioni alte sui temi più delicati e importanti per il Paese. È per questo che oggi dobbiamo essere grati ai due più grandi Partiti che hanno fatto la storia del nostro Paese: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. La prima riuscì nella missione quasi impossibile di inglobare, dare rappresentanza e far conoscere le regole democratiche alle grandi masse contadine cattoliche che fino ad allora guardavano con grande diffidenza al Palazzo e non volevano sapere nulla della politica. Il secondo ebbe l’enorme merito di accettare fin da subito le regole democratiche e la forza del confronto politico, preferendoli all’arroccamento su posizioni puramente ideologiche, dando così rappresentanza nelle istituzioni alle istanze sociali dei più deboli e di tutti gli emarginati. Ma è soprattutto grazie a questi due grandi Partiti, che assieme rappresentavano l’ottanta per cento della popolazione , e ai grandi sindacati dei lavoratori che l’Italia ha superato gli anni bui del terrorismo.
Questa, e solo questa, è degna di essere chiamata Politica. Essa soltanto corrisponde alla definizione classica fornita da tutti i dizionari e da tutte le enciclopedie esistenti: l’arte di governare la società. Non un semplice attività, quindi, ma una vera e propria arte. Un’arte che, in quanto tale, non ha nulla di improvvisato ed estemporaneo, ma poggia su solide basi di studio ed esperienza. Quello studio che permetteva a ragazzi di campagna, a giovani operai con la licenza elementare di formarsi attraverso le scuole di Partito e divenire classe dirigente. Questo è il sale di una democrazia.
Detto questo, non vorrei sembrare un nostalgico della prima Repubblica, voglio semplicemente mettere in luce i suoi grandi meriti e i suoi lati più positivi. Senza dimenticare che se oggi ci troviamo in questa situazione non propriamente rosea è soprattutto a causa dell’incapacità dei suddetti e degli altri Partiti di autoriformarsi tempestivamente in modo efficace.
Col crollo del Muro di Berlino e delle ideologie la società italiana ha fatto un notevole passo in avanti. È cambiata molto rapidamente. I vecchi schemi sono caduti e se ne sono imposti di nuovi. Non ugualmente dinamica è riuscita ad essere la politica, anzi. Se da una parte c’era chi continuava a negare l’evidenza e si ostinava a proporre modelli per nulla innovativi, in assenza di politici veri e partiti degni di questo nome, ha iniziato ad affermarsi quella che nei fatti non può che essere definita come antipolitica. Il senso dello Stato è venuto meno, qualsivoglia prassi istituzionale calpestata, la migliore tradizione italiana rinnegata, le radici della Repubblica stravolte. Ciò che conta è il leader, la sua volontà e le esigenze particolari di chi lo sostiene. Di interesse generale se ne occupi pure qualcun altro. Basta qualche slogan populistico, due foto ritoccate e un paio di strette di mano per riuscire ad ottenere il consenso necessario. Ma alla gente non piace essere ingannata. Se una voglia di cambiamento viene tradita il rischio è grande. E si chiama apatia, indifferenza, apolitica.
L’Italia è stata e rimane uno dei Paesi a più alta partecipazione elettorale. Basta questo a dimostrare che non siamo ancora arrivati a questo punto. Certo, ci siamo arrivati vicini. E il rischio è sempre dietro l’angolo. La gente, in realtà, ha voglia di politica e soprattutto ne hanno voglia i giovani; ma di politica vera: fatta di politici e non di politicanti improvvisatori, che sappia indicare una via da percorrere e non sbandi in continuazione, che abbia istituzioni che funzionino e non proceda per congiure di palazzo. Una domanda da soddisfare c’è. È l’offerta che manca. E in sua assenza ci si rifugia in altre forme: si fa volontariato; si lavora in associazioni; si promuovono movimenti; ma difficilmente si decide di entrare in uno dei tanti (troppi) partiti che altro non sono che degli “ex” o dei “post”. E nelle situazioni di maggior disagio gli estremisti tornano a raccogliere consensi formando gruppi neofascisti che vanno ad aggredire altri ragazzi o nuclei neobrigatisti pronti a tornare a prendere di mira i cosiddetti nemici del popolo.
Ormai serve una netta inversione di rotta. La transizione verso la normalità non può essere eterna e fortunatamente si iniziano a vedere i primi segnali di un approdo. La costituzione del Partito Democratico, a tal proposito, può essere un ottima risposta per quanto riguarda il centrosinistra. Lo stesso può essere la nascita del Partito unitario di centrodestra
Ma perché la politica torni ad avere dignità, torni davvero ad essere considerata un’arte, è necessario il nostro impegno. Noi, un eskimo, sappiamo a mala pena cosa sia. Siamo la prima generazione post-ideologica, siamo liberi di fare ciò che vogliamo senza ricevere un’etichetta ben precisa. È per questo che abbiamo un’occasione unica, e non possiamo lasciarcela sfuggire. Per questo serve l’impegno di tutti quei giovani di ogni schieramento politico che portano in serbo sogni e speranze, che amano il loro Paese, le sue istituzioni e la sua storia, che non si rassegnano allo stato delle cose e lo vorrebbero diverso, che vorrebbero lasciare ai loro figli un Paese migliore. C’è bisogno di tanti giovani come questi. Che pensano che questa non sia solo un’utopia, ma qualcosa di realmente realizzabile. Che decidano di impegnarsi non per qualche miraggio di gloria personale o di autorealizzazione, ma solo ed esclusivamente per passione.

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