venerdì 28 dicembre 2007

Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Tommaso Jacopo Ulissi

In un'Italia che usciva a pezzi dalla Prima Repubblica, dove, per il costume tipicamente italiano di utilizzare anatemi che condannino la società civile, e solitamente ciò che dovrebbe essere il suo specchio, il Parlamento, era difficile districarsi nel mare “nostrum” di considerazioni faziose che mal s’addicevano ad una seria, distaccata, lucida ed obbiettiva riflessione sulle cause di tale ingloriosa fine, il genio indiscusso e troppe volte scomodo di Giorgio Gaber partorì il verso che da il titolo a questo articolo-riflessione. Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono. Come una tagliente ed amaramente realistica battuta, in questa frase era ed è tutt’ora racchiuso lo stato d’animo di molti cittadini italiani, giovani e meno giovani, intenti almeno una volta al giorno a trovare buone motivazioni e convincenti giustificazioni circa la propria appartenenza alla società italiana ogniqualvolta attraversano la strada sulle strisce pedonali e sono quasi investiti, si recano allo stadio e sono quasi linciati, salgono sull’autobus e sono quasi asfissiati. Ecco allora che viene in soccorso il signor G: si è italiani, per fortuna o purtroppo. Non c’è risposta definitiva. Dipende dalle circostanze, dallo stato d’umore, da quanta pazienza e quanta buona volontà voi serbiate. E non v’è semaforo con il rosso non rispettato, parcheggio in doppia fila assicurato e merda di cane sul marciapiede calpestata che possa placare la vostra sete di italianità, la vostra voglia di veder migliorare, seppur lentamente, il Paese ed il vostro ottimismo, che vi fa vedere sempre il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto. Giusto il tempo necessario di sospirare, ingoiare il boccone amaro della vostra ultima speranza appena tradita e trovare la provvida giustificazione nello stereotipo italiano che noi tutti continuiamo ad alimentare con l’indulgenza e la passione di un amante troppo innamorato.
Se ne potrebbe fare una lista di questioni d’affrontare, ma sono talmente sulla bocca di tutti (purtroppo solo sulla bocca) che basta citarne le più eclatanti e condivise: la gerontocrazia della classe dirigente, la prodigalità nell’assistenzialismo, la quasi totale assenza del senso civico tra gli italiani. Anzi, il seguente spazio bianco riempitelo voi: credo le conosciate anche meglio di me [


].
E sarebbero fin troppo banali i confronti con quei paesi che forse più di noi si meritano il titolo di “civili”. Lo so, lo so, le critiche risultano utili solo se sanno anche essere costruttive: ma v’è veramente ancora bisogno di ripetere la cantilena che tracci gli aspetti normativi del “come dovrebbero andare le cose”? E’ dunque ancora necessario denunciare l’omertà sociale nella vita di tutti i giorni, l’irresponsabilità del cittadino medio nei confronti delle libertà altrui, il menefreghismo italiano del “tengo famiglia”? No, credo che a questo punto la situazione stia assumendo la dimensione di una farsa. Sapete benissimo dei mali dell’Italia, perché li vedete ogni giorno intorno a voi e li vivete ogni giorno sulla vostra pelle. E se non è così, forse non dovreste essere neanche autorizzati a discutere su cosa significhi sentirsi italiano. Ma se invece li conoscete bene uno ad uno, giunto a questo punto, vi ritenete italiani, per fortuna o purtroppo?
Ma non solamente alla vita quotidiana è relegata la percezione diffusa di un’Italia perennemente divisa in guelfi e ghibellini, in rossi e neri, in nord e sud. Un’Italia che non sembra meritare la singolarità di sostantivo: piuttosto le Italie delle regioni e dei dialetti, delle fedi politiche e delle tradizioni religiose. V’è anche la siderale distanza fra rappresentati e rappresentanti: come se non vi sia più possibilità di riconoscersi in chi governa tanto quanto in chi è stato designato meritorio e capace di sedere nell’aula parlamentare. La sconsolante delusione nelle istituzioni, la convinzione profondamente radicata dell’intramontabilità del perverso gioco del potere, la tentazione di considerare la partita per rinnovare non solo a parole l’Italia sempre comunque persa in partenza, sembra essere il massimo comun denominatore del cosiddetto “popolo”, che non fa parte della gigantesca kermesse messa in piedi in ogni angolo del Paese per recitare una tragica commedia che vede sempre sconfitto l’interesse del cittadino, sconfortato nel costatare come la mediocrità e la cieca ubbidienza al suo diretto superiore lascino intravedere un “sistema castale” nella gerarchia sociale italiana. Sembra come se la società civile del Paese fosse presa per stanchezza della classe dirigente, come se fosse imbrigliata dalla nomenklatura de’ noatri; come se fosse strozzato in gola l’urlo rivoluzionario (s’intendi bene, rivoluzione del singolo) e si lasciasse ammansire, disilluso e privo di forze, nella auto-conservazione di chi sembra dedito a tutto meno che alla nobile causa italiana.
Ecco dunque che la mia e vostra breve riflessione sul Paese e sul suo passato, per certi verso glorioso ed ineguagliabile, ma per altri certamente ben meno fonte di invidia e ammirazione, non può che giungere ad una conclusione che è una non-conclusione: si è italiani, per fortuna o purtroppo. E’ un attestato di cronica degenza, come una lieve influenza che però persiste da così tanto tempo che lo stato d’allarme è cessato già da un pezzo ed il malato si è oramai assuefatto a tal punto del suo stato febbricitante da non riconoscere più i sintomi di un aggravarsi incombente. In perfetto stile italiano, per l’appunto, come d’altronde è il pessimismo e il catastrofismo della firma di quest’articolo.

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