venerdì 28 dicembre 2007

Il Nostro dovere

Editoriale del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Alessandro Capocaccia

Lo spirito che ha animato la pubblicazione dell’ampio foglio stampato che avete in mano ci ha spinto, mai paghi, a puntare ancora più in alto e a rischiare un secondo numero monotematico. Il tema stesso scaturisce da quello spirito. Sì perché lo spirito di chi vuole graffiare, mordere e lacerare non è, a dispetto delle apparenze, distruttivo. È lo spirito di chi vuole risposte. Le brama, perché le sue domande le necessitano. La domanda, anzi le domande, che ci siamo posti decidendo il nocciolo di questo numero riguardano l’Italia.
Limitarsi a compilare una lista delle mille e una disgrazie che affliggono il Paese in cui abbiamo avuto la (s)fortuna di nascere sarebbe stato troppo facile. E noi amiamo le sfide.
E questo è ancora più vero in un momento come quello in cui chi scrive segue con ansia l’ennesima crisi, sembrerebbe provvisoriamente scampata, che attanaglia le nostre istituzioni. Tutte le persone dotate di spirito critico, qualunque sia la parte politica da esse appoggiata, saranno state prese da un certo sconforto dovuto alla fragilità e all’incertezza, oltre all’umiliazione di vedere un governo implodere sulla politica estera come mai nella breve e travagliata storia della Repubblica.
Purtroppo, si dice, ognuno ha ciò che si merita, e — io parafraso — è governato da chi si merita. Ma noi ci meritiamo davvero una classe politica e dirigente di tale fattura? Noi abitanti dello stivale, dell’”Italietta”, noi che abbiamo rubato perfino l’espressione “repubblica delle banane” di honduregna memoria per definirci, davvero non possiamo puntare a nulla di meglio di quanto abbiamo? Paradossalmente, e italianamente, me la potrei cavare con un bel no, potrei rispondere che ci meritiamo di più, che siamo stufi del modo in cui lì in alto, nei palazzi del potere, sono gestiti i nostri interessi e che chi lo fa dovrebbero cambiare, dovrebbe adeguarsi.
Ma questo non sarebbe semplicemente vero. Inoltre sarebbe stata una mossa da poco, l’ideale compendio della commiserazione che più di ogni altra sciagura grava sulle nostre teste. Al nostro Paese non serve commiserazione, serve che i suoi abitanti lavorino per migliorarlo e non che ne piangano un presunto decadimento, (della politica, dei costumi, sociale in genere), per poi accettarlo supinamente ritenendolo ineluttabile. È per questo che ci meritiamo ciò che abbiamo.
Allora la banale e retorica conclusione a cui voi acuti lettori sarete giunti già da un pezzo qual è? È che siamo noi a dover cambiare, e per noi intendo tutti noi italiani, non solo l’ultima generazione.
Finché il popolo sovrano eleggerà personaggi che tollerano l’evasione fiscale o gli “espropri proletari”, nessun grande statista di saldi principi morali e alto senso dello Stato riuscirebbe a portare l’Italia dove i suoi abitanti non vogliono che essa vada.
In questo numero abbiamo cercato dunque, oltre che di identificare il “problema italiano” presentandolo nelle forme che le penne dietro gli articoli hanno ritenuto giusto dargli e connotandolo nel modo in cui hanno ritenuto giusto farlo, anche abbozzarne un’alternativa. I “pezzi” sono stati scritti indipendentemente l’uno dall’altro; leggerete però un denominatore comune a tutti loro: dietro di essi c’è la passione di chi vuol cambiare, e, vi prego, non intendetela come semplice pasión revolucionaria: il nuovo corso che riteniamo serva all’Italia, deve sì partire dal basso, ma poi deve diventare il sentiero percorso da chi sta “in alto”, in quei palazzi del potere che sono il più facile capro espiatorio (piove, governo ladro, no?) che abbiamo a disposizione.
Chi scrive, a nome di tutta la Redazione, ha cercato di dare, con il taglio fin qui esposto, la speranza che si stimoli una riflessione, anche solo personale, sul bene superiore che dovrebbe guidare la maturazione del cittadino, nella vita quotidiana come nelle sedi dove si porta avanti l’interesse della nostra cara Italia. E perdonateci se nonostante la nostra pragmaticità non siamo riusciti a scrollarci di dosso l’affetto per la Turrita Signora che personifica il nostro Paese, ma era necessario. Era nostro dovere.

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