venerdì 28 dicembre 2007

Sul buon governo del relativismo etico

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Tommaso Jacopo Ulissi

Sull’interessante “terra di nessuno”, residuo ultimo ed ineliminabile della coscienza individuale in cui possono operare gli strumenti filosofici ontologicamente deputati al trattamento delle questioni etiche, al fine di partorire un incatalogabile giudizio di valore finale, oramai tutti, ministri tanto della cosa pubblica quanto del culto religioso, tentano d’ innalzare la propria bandiera culturale avendo già da tempo compreso, da bravi politici quali sono( per fortuna in un caso, purtroppo nell’altro), quanto gli elettori fedeli ( o i fedeli elettori…) si stiano risvegliando dal torpore d’uno statico quadro finalmente incrinato e, con vigorosi strattoni e veloci rinnegamenti, costruiscono mattone su mattone la propria roccaforte elettorale.
La fretta però spesso conduce alla mancanza di un’adeguata preparazione, quantomai necessaria nella discussione in materia etica: incerte e variopinte considerazioni riecheggiano nei luoghi del potere e ambigue e grottesche dissertazioni sul concetto di vita, e peggio ancora sulla presunta sacralità della stessa, confondono il singolo che, tra frastornati risvegli ideologici e istintivi ripiegamenti fideistici, delega ad altri il compito di risolvere la questione. Il problema è che ciò non è possibile: non si tratta di giudizi tecnici, ma giudizi di valore che un necessario esercizio dello spirito critico deve partorire; o quanto mai la probabile e pacifica indecisione ineliminabile deve essere frutto non di un acritico diniego, ma d’una battaglia impari con l’indimostrabilità di ciò che personalmente è considerato eticamente valido.
Chiaro dunque come tutti debbano confrontarsi con il concetto di vita e necessariamente anche con quello di morte, complementare e indispensabile. Spesso però questo avviene confondendo il significato dei termini utilizzati nella discussione con quello consolidatosi nel tempo. Ecco che risalta l’enorme differenza tra il concetto di vita e quello di esistenza: l’uno, scientificamente inteso, come ente caratterizzato da processi biochimici di natura metabolica, l’altro è il valore donato alla vita. Si tratta di una trasformazione assiologica di ciò che è per definizione neutro ed empiricamente riscontrabile in ciò che neutro non è: svaniscono i fraintendimenti ed emergono le sfumature che sono alla base d’ogni questione etica che deve essere trattata con gli strumenti giuridici propri dell’agire politico, i quali, oggettivi e imparziali, debbono operare su un tessuto ben più contorto e nervoso per le mille ragioni mutuabili dalla metafisica, dalle religioni, dalle ideologie o da qualunque forma di tradizione in cui ci si riconosce.
Temi attualissimi come la fecondazione medicalmente assistita, il testamento biologico o l’eutanasia, cosi come per il loro predecessore, l’“aborto”, si trovano in un confine labile e quanto mai frutto della percezione personale, inevitabilmente omnicomprensiva, della realtà circostante: è il confine tra ciò che è possibile e ciò che è lecito; l’uno rispondente solamente a variabili tecnologiche, l’altro a sistemi di valori che trascendono il dimostrabile. La decisione finale, necessaria fisiologicamente nell’organizzazione democratica d’un consorzio civile, non potrà dunque sancire la giustezza di un’esistenza piuttosto che di un’altra proprio perché essa non è né dimostrabile in maniera incontrovertibile né fondabile su valori condivisi: non resta null’altro che ampliare la libertà di scelta del singolo dal piano etico al piano fattuale, permettendo che tutte le possibili esistenze abbiano l’equa possibilità di realizzarsi e che nessuna abbia a prevalere sulle altre, anche se storicamente per tradizione cosi è stato.
Tutto questo richiede da parte dello Stato un esercizio del potere ideologicamente neutro: questo non vuol dire che esso debba sollevarsi a Demiurgo della vita pubblica, sanzionando percezioni personali che possano eludere l’utilizzo razionale della conoscenza richiamandosi piuttosto a valori metafisici e religiosi, cosi da scadere nella formazione di un’ etica pubblica d’impronta statale che mal d’adatta alla fisionomia poliedrica della società civile, ma valorizzando la benevola diversità d’opinione, lievito indispensabile in una democrazia non solo formale.
Una sana laicità di carattere inclusivo è dunque l’humus fertile in cui la libertà d’ogni singolo individuo può esplicarsi, contribuendo così alla messa in scena d’un’armoniosa polifonia sociale senza solisti presuntuosi ma con una direzione d’orchestra intelligente al punto da intuire che la sensibilità di ognuno dei partecipanti è unica nel valore della propria esistenza.

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