venerdì 28 dicembre 2007

La “porca rogna italiana del denigramento di noi stessi”

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Antonio Bruno

Quella “porca rogna italiana del denigramento di noi stessi”, cui fa riferimento Carlo Emilio Gadda nella sua opera “Giornale di guerra e di prigionia”, può, senz’ombra di dubbio, essere riferita all’incapacità della classe dirigente e politica italiana di riuscire a risollevare le sorti di un’Italia che è, ahimé, ancora oggi considerata una “semplice espressione geografica”, o perfino uno Stato che ha perso l’abitudine a governarsi; uno Stato dimentico della sua identità nazionale.
Il periodo che prende il nome di Prima Repubblica e che sembra essere stato l’età dell’oro del nostro Stato unitario, nonché la stagione di benessere e sviluppo economico, è coinciso, a detta di alcuni, con il trionfo di una strategia minimalista, con la retorica dell’Italietta “schiava” delle grandi potenze Occidentali e legata, dal vincolo del Partito Comunista Italiano, al grande nemico strategico dell’Occidente: l’Unione Sovietica. Eravamo un semiprotettorato altrui, inglobato nella strategia occidentale della Guerra fredda. In effetti, “la nostra politica militare era quella della Nato, la nostra politica economica era quella della Comunità Europea” (cfr. Francesco Cossiga) e non poteva essere altrimenti, dal momento che la nostra Prima Repubblica era sorta dalle ceneri delle ambizioni italiane di grandezza nel secondo conflitto mondiale.
A partire dall’agosto del 1943, il re e il generale Pietro Badoglio si trovarono di fronte a un bivio: abbandonare la guerra e difendere il territorio nazionale da qualsiasi pressione esterna o allearsi con gli anglo-americani e prendere parte ai successivi eventi bellici. La scelta ricadde sulla seconda alternativa e lo sbandamento fu totale. Come ha commentato amaramente Sergio Romano “[il re e Badoglio] dimostrarono che l’Italia non poteva né badare da sola alla propria sicurezza, né dare un contributo determinante alla difesa del proprio territorio”, sottolineando quanto quegli eventi furono importanti per il presente e il futuro della nazione. Quella decisione infatti tracciò il percorso che la politica estera italiana avrebbe seguito negli anni a venire, determinandone le scelte più importanti. Si fece strada, quindi, un sentimento europeista, al quale, con il beneplacito degli Stati Uniti, aderirono tutte le nazioni del Vecchio Continente, terrorizzate dalle nefandezze della guerra e dalla loro incapacità di farvi fronte. L’europeismo dell’Italia fu, invece, una scelta obbligata, considerando la necessità di Alcide De Gasperi di rivedere completamente gli obiettivi della nostra politica estera, a causa della freddezza nutrita nei confronti dell’Italia da parte di americani e inglesi, ben lontani dal precedente entusiastico avvicinamento. L’unica arma per evitare l’isolamento divenne proprio innalzare il vessillo dell’europeismo, attraverso il quale l’Italia rientrò nella sfera alleata, registrando anche il consenso, rispetto a tale scelta, di larga parte del Paese.
Questo complesso di eventi rappresentarono, per la nostra nazione, una sorta di trauma mai più riassorbito, che ha fatto progredire quel processo di “denigramento di noi stessi” fino alla permanente prostrazione del sentimento nazionale degli italiani. Renzo De Felice, nel suo dibattuto libretto Il Rosso e il Nero, sostiene che, a partire dall’8 settembre 1943, si sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani, una catastrofe ideale, la perdita dell’idea di nazione che avrebbe “minato per sempre la memoria collettiva nazionale”; gli italiani pertanto, privati nel profondo della fede nella patria, sembravano una “massa informe dalla corta prospettiva morale”, pronti per essere ulteriormente ingannati dai partiti antifascisti. Insomma, gli italiani sarebbero caduti nelle mani della partitocrazia che avrebbe costruito la retorica antifascista senza aver posto rimedio alla debolezza. A questa conclusione sembra pervenire anche Ernesto Galli Della Loggia la cui analisi sulla “morte della patria” riprende e radicalizza ulteriormente le posizioni di De Felice, ravvisando l’insufficienza identitaria italiana in una dimensione quasi antropologica.
Si potrebbe obiettare, a quanto detto, che l’8 settembre sia stata la diretta conseguenza di un’erronea scelta, seppur obbligata, fatta ben tre anni prima: il 10 giugno 1940, quando l’Italia, consapevole di aver sacrificato le forze migliori del Paese nelle guerre coloniali, si è lasciata coinvolgere nella guerra nazista. Tuttavia è innegabile che, generazione dopo generazione, gli italiani siano stati allevati in una mescolanza di retoriche antinazionali di ogni tipo. Quelle due grandi forze che gestirono la Repubblica dei partiti, l’una sempre al governo, l’altra sempre all’opposizione, non sono state in grado di gettare salde fondamenta per la costruzione di un sistema politico, amministrativo ed economico, che riuscisse nel tempo a proiettare l’Italia in una dimensione dominante, avulsa dal becero “servilismo”, che l’ha dilaniata per secoli. Si è così venuta a creare una società apolitica, asociale, antistatalista; una società contagiata dal virus della diffidenza, dell’antipatia, dall’odio verso lo Stato, verso la sua burocrazia, verso le sue tasse ma anche verso le sue regole. Una società tesa al multiculturalismo, ma vittima di un paradosso: se da un lato è pronta ad accogliere nel suo seno migliaia di “senza patria” che difficilmente rinunciano alle proprie origini, dall’altro si ritrova ad aver formato una generazione di italiani che giorno dopo giorno subiscono passivamente gli inesorabili mutamenti della realtà globale, dimenticandosi della propria storia, delle proprie radici, della propria identità...
Pertanto, per quanto possa sembrare arduo il compito di ridare all’Italia maggiore consapevolezza del proprio orgoglio nazionale, risulta, oggi più che mai, un imperativo, una necessità vitale adoperarsi affinché venga colmato il vuoto culturale, identitario, generato dall’inadempienza politica di alcuni uomini, deficienti dell’arte di governare. Come ha spiegato il grande filosofo contemporaneo Karl R. Popper, la domanda giusta da porsi non è mai “chi deve governare?”, bensì “come possiamo organizzare le istituzioni politiche per impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. La risposta a tale domanda sarebbe da ravvisare nei principi dello Stato democratico, basato sulla divisione dei poteri; sullo Stato di diritto di tipo democratico-parlamentare, la cui essenza risiede nel favorire l’alternanza dei partiti destinati a governare. Purtroppo la recente storia dell’Italia della Prima Repubblica è stata segnata dalla mancata attuazione di questa alternanza e da un perpetuo susseguirsi di numerosi governi, espressione di un’unica corrente politica e di una corrotta mentalità che credo abbia soffocato quella vertù mossa dall’antiquo valore/ne l’italici cor, cui facevano appello Petrarca e Machiavelli.

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