venerdì 28 dicembre 2007

Per parte di madre

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Edoardo Berionni Berna

C’era una volta…
- Un re. E la sua nobiltà ! - diranno subito i miei piccoli lettori. Poi nel 1789 scoppiò la Rivoluzione francese, rotolò qualche testa coronata e si insediò al potere la Borghesia.
- No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta la Borghesia, ancor meglio la piccola-media borghesia italiana. Operosa, trafficante ed affarista. Da sempre.
Era composta da individui creativi alla ricerca del nuovo, liberi di industriarsi e di arricchirsi.
Poi tutto passò in mano ai loro figli, giovani, molto benestanti e magari laureati in prestigiose università private. Ecco però che avviene qualcosa di strano.
La favola pare interrompersi, perché il bambino si è appena assopito. La progenie, eccetto casi straordinari, non sa far altro che dormire, così distruggendo i risultati del sudato ingegno paterno e le invenzioni dello stesso genio italiano.
Sono tante le giustificazioni a questo fenomeno che ha assunto le dimensioni di una vera e propria questione socio- generazionale, ma solo una ritengo sia la più plausibile, poco trattata perché troppo elementare per gli esperti di macroeconomia. Non è il calo dell’occupazione, non è l’indebitamento e neppure la crescita dei tassi d’interessi, che — questo è da ammettere — non favorisce certo un aumento degli investimenti. La questione è sociale, perché è umana. Attiene al mondo giovanile italiano. Il nostro paese è proverbialmente reso vittima di inspiegabili sbalzi d’umore e — ancor peggio — di improvvise perdite di memoria.
Ma dimenticarsi di essere figli della borghesia e non di altre o più ambite entità sociali mi sembra eccessivo, anzi patologico.
Il guaio consiste dunque in questa crisi di identità. Descrivo e definisco ora più dettagliatamente la sindrome: ad oggi i giovani italiani si sentono nobili decaduti, discesi -seppur per una limitata ascendenza- dai rami collaterali di qualche grande famiglia aristocratica. E non esitano a presentarsi come tali, pur sapendo di mentire a se stessi.
Appena raggiunto il benessere, ecco che l’insignificante interesse per la cultura araldico-cavalleresca prende il sopravvento e sfocia trionfante nell’inaspettato quanto mai spasmodico ritrovamento di antichi vincoli parentali, magari echeggianti fastose origini giulio-claudie.
Esplodono così il gusto per il lusso e la sua febbre visionaria, il vezzo patrizio per la cultura del doppio nome, possibilmente lungo, magari cesellato alla fine da un reboante “Maria”, che lascia volutamente il dubbio — a chi di araldica onomastica non si intende — se la scelta dei genitori possa riferirsi al rassegnato rimpianto per la perdita dell’affezionato feudo di Mariano Comense (donato a fine Quattrocento da Galeazzo Maria Sforza alla sua favorita Lucia Marliani) o più semplicemente per una sincera devozione alla Madonna ed indirettamente — Dio non voglia — al Secondo Stato.
Che dire delle madri di questa nuova, rampante, inesistente, dimezzata schiatta?
Madame Bovary senza Bovarismo. Che resta? Desiderio di fanti e fantesche (meglio chiamarle così che badanti), governanti (mai dire baby-sitter), castelli, leoni di gesso, giardini, golf e bridge senza troppo preoccuparsi della tormentosa crisi dell’eroe tardo-romantico in Flaubert.
Allora perché non risanare il disavanzo di finanza pubblica con la vendita di avvincenti e proibitive patenti di nobiltà? Un passo avanti si è fatto o meglio si stava facendo in Commissione Giustizia del Senato, una rivoluzione senza spargimenti di sangue, la “rivoluzione anagrafica” nella famiglia: i figli con il doppio cognome! Un progetto — devo dire — animato tuttavia dalle migliori intenzioni.
Ma il possibile fraintendimento rimane. Perché sì, noi l’Italia dei doppi cognomi la vogliamo!
Anzi vogliamo ampliarla in nome della democrazia e della libertà low-cost.
Se non altro per complicarci la vita, allungando la firma e con essa chissà anche gli iter burocratici.
Accade così che la fannullaggine che deplorava l'abate Sieyès si trasforma in gaudente dandismo,
l’apatia giovanile in stoico e quietistico distacco senecano (in fondo Seneca si studicchia al liceo).
Tutto questo perché? Perché i giovani italiani si sentono nobili decaduti, molto decaduti,
che provano così disprezzo verso il fare, l’agire e l’arrangiarsi tanto da chiamarlo appunto “borghese”. Questo fenomeno socialmente ed economicamente stagnante non ha tuttavia un nome preciso. È sfuggente e ben mimetizzato all’interno dell’anonima opacità sociale del “ceto medio”, che come espressione pare funzionare solo quando si parla di Finanziaria ed in nome di questa si aduna in piazza a suon di corno populista il cosiddetto “il popolo del ceto medio”, quando in realtà neppure il signor Dahrendorf seppe mai definire questa “classe che non è una classe”.
Sfugge dunque addirittura alla mania classificatoria dei sociologi.
“Rivoluzione crescente delle aspettative”? Magari!
Ciò significherebbe continuare a credere in stessi, nella scienza d’Occidente, nell’intelligenza europea, nel genio italiano, così ponendosi continuamente nuovi ed ambiziosi traguardi da superare, senza mai dimenticare che il lavoro, in fondo, è un gioco gratificante.
Questo sarebbe borghese! Nel senso più pieno del termine. Negli affari come in politica (previe più serie e severe leggi sulla regolamentazione del conflitto di interessi che non abbiamo visto approvare né ieri, né oggi).
Continuare a spendere per gioco, finanziare consumi sempre più larghi che riducono i risparmi e fanno crescere il debito non sono che i sintomi di questa patologia: il complesso del nobile decaduto. Certamente sintomatico nella puntuale saggezza e lungimiranza del suo autore fu il giudizio del ministro Giuliano Amato qualche anno fa: “ Vi è un’anomalia nei ceti medi italiani, gli unici al mondo che hanno consumi simili ai ricchi. Altrove la frugalità è una virtù.”
Forse chissà, le parole magiche sono proprio quelle di parsimonia, di moderazione, di frugalità appunto. “Industry and frugality” recitava l’americano Franklin più di due secoli fa.
Provo dunque nostalgia per le forme borghesi di sobrietà, di rigore e per tutti quei caratteri che hanno sempre contribuito alla creazione del mito classico della buona borghesia.
Non ultimo il merito e la competizione.
Personalmente ritengo il termine borghesia un ottimo sinonimo per meritocrazia, che a sua volta non può prescindere dalla competizione, spesso ahimé considerata nelle nostre scuole — per colpa di una mentalità marxista o troppo cattolica — più un male che un bene. Questo perchè si insegna la rivoluzione francese, ma non si educano i ragazzi al precetto confuciano di vita del “non importa cadere, l’importante è rialzarsi.” Non si insegna più l’italica arte dell’arrangiarsi, che stiamo perdendo.
Storicamente il nobile è nobile perché è nobile. O si possiedono i “ritratti affumicati” degli stravaganti antenati Trao di cui raccontava il Verga sfiduciato di Mastro-don Gesualdo oppure non si possiedono. Punto e basta. Certo non si possono inventare. E neppure commissionare post mortem.
In letteratura — e soprattutto in quella cultura decadente di fine Ottocento — ha prevalso l’immagine del nobile decaduto attraverso le fantasiose figure letterarie di Andrea Sperelli e di Des Esseintes, simboli stessi della decadenza di un’ Epoca. Entrambi i personaggi, ancor oggi associati ad un’idea stereotipata di nobiltà, sono figure presentate al lettore come individui a rischio di estinzione, potenziali vittime del loro stesso processo evolutivo che li ha di rado costretti a cambiare qualcosa.
Un’immagine certo lontana dalla realtà. È pura finzione. Letteratura, appunto. Che però per molti, (direi troppi), rappresenta un affascinante modello comportamentale. “Vivere largamente la vita”.
E noi non possiamo permetterci questo lusso.
Non il borghese, che resiste, perché sa adattarsi e sa adattarsi perché si arrangia.
E in fondo non ha nulla da perdere, non teme di poter perdere il proprio passato, perché guarda al futuro. Né il proprio cognome o (in casi eccezionali) a uno dei due.

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