venerdì 28 dicembre 2007

La nostra presunzione

Articolo del numero 1 uscito nel marzo del 2007 sull'edizione cartacea

di Mattia Bacciardi

Mi è capitato di rileggere le belle pagine del Manifesto di Ventotene e non ho saputo resistere all’enfasi volontaristica e ancor di più alla struggente malinconia. Depongo da subito la toga neutrale che spetta a chi scrive. Vi avverto: non sarò obbiettivo.
Le parole gravi dei tre intellettuali che lamentavano l’Europa distrutta dal rinato impulso suicida, la lucida analisi della follia totalitaria, il coraggio di prendersi sulle spalle la storia del Vecchio Continente: sono le armi sottili di uomini comuni dediti all’uso attento della propria ragione. Le sole armi rimaste all’ “homo aeuropeus” da opporre alla cieca hubris delle legioni naziste. Armi leggere quelle della lucida critica contro gli squilli di tromba della “Rivoluzione Mondiale”.
Le armi di questi tre italiani, sconfitti ma non vinti, sono generose e quasi compassate nel loro invito al cambiamento. Somigliano più al fioretto aristocratico che alla prosaica artiglieria del pensiero unico. Non mirano al cuore, facile preda dei martellanti tamburi della “necessità storica”. Evitano saggiamente gli echi della demagogia populistica.
Mentre tutto il mondo impazzito rotola verso la pira sacrificale allestita in un decennio di corsa al riarmo, tre presuntuosi italiani osano ancora scrivere frasi da capire, non da urlare. Sillogismi, non slogan.
Capita spesso in Italia. Anche oggi che la macchina mondiale affretta il passo dello sviluppo tecnologico, noi lamentiamo la nausea della velocità e chiediamo di scendere per prendere un autobus. Sempre il prossimo.
E’ un po’ il paradigma dell’Italia: quello di voler essere a tutti i costi fuori dal coro. Ma quella volta quei tre italiani videro più lontano degli altri. Dove altri si rassegnavano alla rovina di un continente perennemente abbattuto essi videro un’opportunità. Resistettero al pessimismo vano dei fatalisti, dei profeti del declino europeo riaffermando quello spirito visionario che contagiò i De Gasperi, gli Adenauer e gli Schumann.
Nel momento supremo dello scontro totale, quando tutti si arrendevano alla logica delle baionette incrociate, essi avevano ragione a voler alzare lo sguardo. Avevamo ragione.
Come italiani e come europei il nostro manifesto di Ventotene rappresentò l’idea più originale e più giusta sulla strada da percorrere. Fummo noi italiani, con questo appello disperato e visionario ad indicare la via alle altre nazioni europee che brancolavano nel buio della guerra “unica igiene del mondo”.
Fu un sasso nello stagno, che irradiò di sé l’acqua circostante, profondendo cerchi sempre più ampi: la Ceca, poi la CEE, quindi il Trattato di Maastricht e infine l’Unione Europea.
Oggi il tentativo di darci una Costituzione frettolosamente emanata col cipiglio di una circolare ministeriale sembra aver fermato la forza propulsiva di quel sasso.
Ma troppe generazioni di italiani e di europei hanno creduto e si sono spese per dare alla luce il sogno della Federazione per credere che tutto si dissolva con un paio di “No”.
Ci vuole ben altro che un asfittico dibattito sulle radici culturali o freddi calcoli di geopolitica improntati all’analisi costi-benefici per fermare questa idea.
Un’idea di libertà. Quella di viaggiare, attraverso le frontiere mai più sbarrate da muri eretti in una notte in cui spira più forte il vento della xenofobia. Di trovare lavoro, in un mercato unico che non conosca più autarchie e protezionismi. Di conoscere, studenti Erasmus di ogni latitudine che mescolano i colori della loro diversità in un turbinio di lingue e di costumi.
Ogni generazione politica riceve dalla precedente una grande sfida da superare. Un compito o un obbiettivo che dia senso alle tante parole profuse ed agli sforzi di compromesso compiuti. Alla generazione di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni toccò in sorte la lotta contro il totalitarismo che minacciava la conquista dell’Europa. Essi onorarono il loro impegno e gettarono le fondamenta della casa comune europea. L’ultima generazione ha eretto quella casa nel ricordo del sangue versato dai loro padri. Essi ci hanno condotto fin sulla soglia, interludio alla vera federazione politica e lì si sono fermati.
Il nostro compito è di ritrovare lo slancio della fiducia di quei tre presuntuosi italiani che preconizzavano “una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali” quando sul nostro continente incrociavamo le armi gli uni contro gli altri.
La nostra meta è di realizzare una Federazione di popoli capace di valorizzare le proprie diversità di storie e tradizioni ma di agire come un solo protagonista sulla scena mondiale. Carico dell’esperienza di una civiltà dotata del grande merito di saper mettere in discussione sé stessa.

1 commento:

Unknown ha detto...

Verrebbe da dirTi: vall'a racconta' a Sarko! Ma il problema sostanziale non è quello...sulla questione (e non solo ;-P) sono solitamente più idealista di Te...Però...Per quanto Le cher Président rappresenti un ottimo esempio di integrazione tra nazionalità, il percorso mi sembra ancora troppo in salita, molto più di quanto non lo fosse sotto il soffio rivitalizzante delle necessità postbelliche, con quell'energia che solo il dolore e la disperazione riescono a generare, illuminati dalla volontà, più che dalla speranza, di andare oltre. Creare condizioni di stabilità, non aspettandosi che possa arrivare da sola o scortata da un deus ex machina. Da allora non sono mancati né impegno né perseveranza nella gestione di un processo che ha dato e continuerà a produrre i suoi frutti. Ma come vengono percepiti? E da chi? Sono inibiti i sensi o semplicemente non trovano l'occasione di affinarsi, di essere stimolati? Mitterand diceva, senza pregiudizi, che il colore che meglio rappresenta la Francia è il grigio, nella bellezza di ogni sua tonalità...Bruxelles appare ivece grigia come il mostro burocratico che la anima...un metallo opaco capace solo di tanto in tanto di emanare qualche scintillio soffocato nella nebbia...Naturalmente la realtà europea, dall'Erasmus alla libera circolazione, si sta costantemente "quotidianizzando", con tutta l'efficacia che il silenzio e la gradualità comportano...Permangono tuttavia la distanza spirituale e l'horror vacui a rendere ancor più invisibili i difficili(proprio perché virtuali)terreni destinabili alla coltura di un nuovo vecchio mondo. Un coinvolgimento, anche solo informativo, comporta impegno, autodeterminazione, attività. L'indispensabile delega alla responsabilità dell'individuo e alla sua curiosità risulta insufficiente laddove non vi siano ancora strumenti istituzionali e culturali adatti a trasformare quel coinvolgimento da vagamente élitario a capillare. Andare incontro alla passività (di cui io stesso sono manifestazione)significa anche, senza purtroppo potersi permettere la pretesa di stravolgerla, sfruttare al meglio il mezzo che per eccellenza su di essa si fonda: la popperiana "cattiva maestra". L'Italia si è unificata sotto l'ala protettiva di mamma RAI...Tempi mutati, contesto diverso, mezzi concorrenti, eppure...per uno squallido gioco di specchi riflessi lì l'Italia guarda se stessa e da lì si forma...e s'informa! Con un quarto d'ora domenicale di TG3RegioneEuropa offuscato dall'intera settimana di reality show, telefilm americani, cronachetta nera di provincia e rubriche di cucina nei telegiornali, immaginiamoci quale nobile animo europeo potrà formarsi nei corpi sempre più "svertebrati" dell'utenza. La pericolosità e/o grande capacità di stimolo di questo medium non sono intrinseche ad esso, ma dipendono interamente dal senso critico di chi lo gestisce e di chi ne fa uso. Assistiamo impotenti ad un appiattimento culturale, immobili davanti ad un sipario inossidabile calato sugli orizzonti dalla stessa macchina che potrebbe aiutarci a percepirli più nitidi e prossimi. Sbarcato a New York, quando gli chiesero di che razza fosse, Einstein rispose: "umana". Non è lecito ambire a tanto, ma quando riusciremo istintivamente
a postporre (conservandone il valore) l'identità nazionale a quella comunitaria, potremo imparare a camminare con piedi più leggeri e ben saldi su un terreno meno ripido e impervio.