venerdì 28 dicembre 2007

Mercato del lavoro: superare il dualismo, crescere nell’efficienza

Articolo del numero 0 uscito nell'ottobre del 2006 sull'edizione cartacea

di Emilio Manfredi

Nelle analisi e nei dibattiti di questi mesi sull’economia italiana è emerso un concetto di fondo: la manovra finanziaria presentata dal governo Prodi va nella direzione giusta dal punto di vista del risanamento del bilancio pubblico e dell’equità, ma è priva di interventi efficaci per un attacco al cuore dei problemi del settore produttivo; è priva di interventi tali da poter effettivamente spingere il Paese verso la crescita.
Senza avere la pretesa di poter individuare con sicurezza i punti chiave per lo sviluppo economico italiano nella sua complessità, mi limito a segnalare gli aspetti salienti di un dibattito molto interessante che si è svolto, negli ultimi mesi, sulla riforma del mercato del lavoro del nostro Paese.
L’Italia è, insieme alla Germania, lo Stato dell’U.E. in cui si registrano i più ampi divari fra regioni nei livelli di reddito e occupazione. In più in Italia, come nel resto d’Europa, le regioni con il più basso reddito pro-capite coincidono con quelle con il più alto tasso di disoccupazione. Possibili vie d’uscita a questa situazione sono una maggiore mobilità nel mercato del lavoro e una maggiore flessibilità regionale dei salari. La contrattazione a livello nazionale dei salari non aiuta certo in questa direzione, determinando livelli troppo alti per le regioni con bassa produttività (e con costo della vita inferiore) e favorendo conseguentemente la crescita del sommerso. In mancanza di crescita economica sostenuta, per creare più occupazione è necessario ridurre il costo del lavoro rispetto alla produttività o aumentare la flessibilità. Ma come conseguire quest’ultimo scopo in un mercato del lavoro come quello italiano, in cui ormai da anni ( e già da prima dell’introduzione della “legge Biagi”), domina un fortissimo dualismo, basato su un'artificiosa e ingiustificata disparità di trattamento fra lavoratori subordinati e para-subordinati?
Quella della flessibilità non è un’esigenza di questi mesi e le riforme degli ultimi anni hanno cercato proprio di scongelare un assetto eccessivamente rigido del lavoro tipico. La strada percorsa finora è stata quella di aumentare la flessibilità solo per le fasce marginali del mercato del lavoro, creando precarietà a bassi salari e scaricandone il peso principalmente sulle nuove generazioni. La sfida che si pone ora, quindi, è quella di perseguire l’obiettivo della maggiore efficienza del sistema nel suo complesso attraverso la flessibilità, adottando, allo stesso tempo, le misure necessarie affinché questa sia un trampolino di lancio verso occupazioni più stabili e meglio retribuite nel
tempo e alla condizione che il nuovo regime si instauri per tutti i lavoratori. Questa sfida comporta inevitabilmente la necessità di affrontare di petto il problema della riunificazione del diritto del lavoro. Ed eccoci alle proposte sollevate in questi mesi, che descrivo brevemente.
La prima, avanzata dalla CGIL sulla scia del congresso di Marzo di quest’anno, prevede l’estensione dello Statuto dei Lavoratori a tutti i rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente. L’obiettivo di superare la disparità di trattamento tra subordinazione para-subordinazione e di smantellare la selva dei contratti di lavoro atipici viene perseguito con l’introduzione di un solo contratto di lavoro possibile, quello a tempo indeterminato, e di unico regime di protezione. Un simile assetto porterebbe, secondo i critici, a un irrigidimento ancora maggiore del mercato e alla perdita dell’impiego per migliaia di attuali precari.
Le altre proposte affrontano il problema prevedendo l’introduzione per tutti di un unico dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità, passando necessariamente per un periodo di transizione con protezione più debole. Tale sistema avrebbe il pregio di facilitare fortemente, per tutti, l’incontro di domanda e offerta di lavoro. Nello specifico, la prima delle altre due proposte, presentata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi, prevede un unico rapporto di lavoro, a tempo indeterminato, con una forte protezione e tutela in base all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori contro discriminazioni e licenziamenti disciplinari ingiustificati. Contempla un periodo di prova per i primi sei mesi di lavoro, cui segue, nei tre anni di lavoro successivi, una protezione solo indennitaria contro i licenziamenti economico-organizzativi. Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato prevede una durata massima di due anni. Suggerisce inoltre l’introduzione un salario minimo, (che in Italia sarebbe eventualmente più efficace se differenziato per regioni e classi d’età), e un’uniformazione dei contributi previdenziali indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro.
La seconda ipotesi, quella presentata da Andrea Ichino, introduce il “contratto temporaneo limitato”, di durata non inferiore ai tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa dallo stesso lavoratore. Questi può fruire del CTL per al massimo tre volte in imprese diverse, con costi di transazione ridotti al minimo. Quest’ultima proposta prevede quindi grande libertà di sperimentazione con il lavoratore a termine in un periodo di tempo sufficientemente ampio. Agevola tra l’altro notevolmente, (come anche l’ipotesi descritta prima), l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro da parte di quei soggetti (giovani, donne dopo la maternità, lavoratori maturi o anziani) che avrebbero maggiori difficoltà a trovare una nuova collocazione con un contratto a tempo indeterminato.

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